FREE FALL JAZZ

Donald Byrd's Articles

E così pure Donald Byrd ci ha lasciati. Byrd emerse negli anni ’50: fu uno dei tanti trombettisti fulminati sulla via di Damasco da Clifford Brown, di cui divenne uno dei più ardenti adepti assieme a Lee Morgan, Booker Little, Freddie Hubbard, Blue Mitchell e compagnia. Una delle trombe per eccellenza dell’hard bop, diplomatosi alle università di Art Blakey e Horace Silver, Byrd ha una lunga discografia infinita alle spalle, fra collaborazioni e lavori da titolare. Spesso gli è stato rimproverato di essere troppo prudente, di seguire vie nuove quando altri vi si erano già avventurati, e certo i suoi album funk degli anni ’70 non sono il massimo della vita. E pazienza, chi se ne frega. Ci piace ricordare Donald Byrd anche come educatore, visto che ha speso gran parte della sua vita insegnando jazz e storia della musica nelle università americane: è stato, in questo, un vero precursore.


Con un po’ di buona memoria di certo ricorderete la Red Hot Organization, associazione sin dai primi anni ’90 attiva nel raccogliere fondi per finanziare cause in legate alla lotta contro l’AIDS. In particolare, i proventi arrivano dalla pubblicazione di una serie di compilation a tema, contenenti materiale più o meno inedito di nomi abbastanza importanti, la cui qualità però negli anni è andata sfortunatamente scemando (agghiaccianti le uscite “latine”, per esempio). Agli inizi le cose erano di tutt’altro livello: si pensi alla terza raccolta, ‘No Alternative’, che, sfruttando il boom “alternativo” del periodo, riuniva sullo stesso disco Soundgarden e Beastie Boys, Soul Asylum e Sonic Youth, persino i Nirvana, con una strepitosa hidden track (‘Sappy’). Un anno dopo fu il momento di “sfruttare” a scopo benefico un altro filone particolarmente in voga, capace di garantire buoni proventi: l’ibrido tra hip hop e jazz.

‘Stolen Moments: Red Hot + Cool’ arriva dunque nel 1994, quando la fusione tra i due stili è all’apice della popolarità e la carica innovativa va inevitabilmente svanendo, cionondimeno offre tanto materiale nuovo (coi testi “in tema”) e una carrellata di accoppiamenti inediti. (Continua a leggere)

Passato più o meno recente per il Picture This di questa settimana: andiamo a ripescare un’esibizione di Donald Byrd presso l’Education Humanities Theatre della Delaware State University. Il brano è ‘Fly Little Bird Fly’, dal classico ‘Mustang!’ del 1966. Attorno al trombettista, un manipolo di ottimi musicisti: dal veterano Joe Chambers alla batteria (già con Byrd negli anni ’60) all’esperto bassista Ira Coleman, fino agli ottimi “giovani” Eric Reed (piano) e Vincent Herring (sax). Roba buona.

“L’hip hop è il figlio del be bop”: a propugnare la teoria con queste parole fu un pezzo da novanta come Max Roach, non certo uno qualunque. In ambito jazz però non furono in molti a condividerne il pensiero. Certo, il senso delle sue parole non era letterale, voleva semmai evidenziare quella linea, immaginaria ma facilmente individuabile, che parte dagli spoken word su base intrisa di jazz di Gil Scott Heron , passa per l’Herbie Hancock electro-funk di ‘Rockit’ e arriva a precursori come i rapper Gang Starr, che all’esordio stupivano campionando ‘Night In Tunisia’ per la loro ‘Words I Manifest’, che spianava la strada agli exploit dei vari A Tribe Called Quest, De La Soul o Digable Planets, che pure imbottirono i loro album di campionamenti presi a prestito dal jazz con risultati freschi ed entusiasmanti, dimostrando come la sintesi tra i due generi fosse tutt’altro che inattuabile. Proprio durante il momento di massima popolarità di questi ultimi nomi il discorso compirà un’ulteriore, decisiva sterzata grazie all’intuito di uno dei suoi primi teorizzatori. (Continua a leggere)