FREE FALL JAZZ

Dixieland's Articles

Io, per motivi puramente anagrafici, Jula De Palma l’ho scoperta in netto ritardo. Di certo lei non mi ha “aiutato”, scomparendo letteralmente dalle scene a metà degli anni ’70, all’apice della maturità artistica. Non solo: a differenza di altri personaggi che, pur rinunciando alle apparizioni pubbliche, hanno mantenuto vivo l’interesse attorno al proprio nome continuando a produrre musica, il ritiro di Jula De Palma è stato quanto di più definitivo e “radicale” si possa immaginare. Insieme alla musica ha lasciato l’Italia in favore di una casetta in Canadà, dedicandosi per anni a un’attività imprenditoriale che con le sette note non c’entra neanche di striscio, senza cedere alle lusinghe di trasmissioni revivaliste e tricche tracche vari (e infatti quando accetta di tornare sullo schermo – qualche anno fa dall’incartapecorito Limiti – è più per un favore a un vecchio amico che per autocelebrazione). C’é poi da dire che la nostra oggi viene ricordata quasi esclusivamente per ‘Tua’, brano che a Sanremo ’59 fece scalpore in quanto troppo pruriginoso per le pudiche platee dei tempi, “scandalo” che le regalò le copertine di praticamente tutti i settimanali. Le partecipazioni a Sanremo, i successi nella musica più o meno leggera e la conduzione di programmi radiofonici e varietà televisivi la incoronarono come una delle donne di spettacolo più in vista dell’Italia anni ’50 e ’60, ma allo stesso tempo le impediscono oggi di ottenere la giusta considerazione agli occhi “puristi” degli appassionati di jazz. Ed è un peccato, perché Jula alle prese col jazz era una vera forza della natura. (Continua a leggere)

L’errore di album come questo è a monte, nella malcelata malafede. Come dar torto, però, a chi orchestra il piano? Ci guadagnano tutti, a ben vedere. Per Marsalis è un’opportunità in più per far conoscere le proprie capacità di trombettista oltre la cerchia del jazz. Per Clapton è la possibilità di togliersi uno sfizio da pensionato annoiato e magari sentirsi anche elogiare per la maturità e la voglia di mettersi in discussione. Per l’etichetta, poi, è un vero invito a nozze: spesa esigua (perché realizzare una registrazione live costa di certo meno che un album in studio) e un disco potenzialmente vendibile a due tipologie di pubblico. Gli unici a prendersela in quel posto sono quelli che spendono i fatidici 18 euro (o anche di più, nel caso della combo CD+DVD) per portarsi a casa ‘Play The Blues’.

La scaletta pesca principalmente classici dagli anni ’40 a ritroso, orientata soprattutto sul versante dixieland/New Orleans, seppur con qualche variante blues. Questi ultimi sono ovviamente i momenti in cui Clapton sembra più a suo agio, mentre altrove è letteralmente sovrastato dalla big band messa insieme da Marsalis, il quale, tra classe e mestiere, non sfigura, ma non è che avessimo bisogno di un disco come questo per ricordarcelo. (Continua a leggere)