FREE FALL JAZZ

Assieme all’ultimo di Vijay Iyer, il terzo album di Ambrose Akinmusire è forse il più atteso disco dell’anno. Ed è comprensibile, visti i riscontri positivi quasi unanimi ottenuti dal precedente, bellissimo ‘When The Heart Emerges Glistening’. Ambrose non si è certo risparmiato, numeri alla mano: ‘The Imagined Savior…’, vanta un titolo chilometrico ed evocativo, vari ospiti (fra cui un quartetto d’archi, un flauto e tre diversi cantanti) e quasi ottanta minuti di durata. La paura di trovarsi di fronte ad un’opera pesante, magari pure pretenziosa, c’è ed è inutile nasconderla. E il primo ascolto non è stato neppure troppo incoraggiante, anzi. La nuova opera del californiano parte in punta di piedi, un duetto di tromba e pianoforte (‘Marie Christie’) dai toni quasi dimessi, con un tema che sembra sempre sul punto di arrivare, ma in realtà non lo fa mai, mentre gli strumenti intessono una serie di melodie intrecciate. Un clima surreale  che poi prosegue in ‘As We Fight’, suonato dal quintetto al gran completo, post bop drammatico e arioso, privo anch’esso di tema e affidato all’attenta esplorazione melodica dei fiati su una serie di metri e sezioni diverse. Fra i brani cantati, impossibile non restare colpiti da Becca Stevens su ‘Our Basement’, con un contrabbasso che mima il battito cardiaco nella prima parte, mentre poi tromba e archi disegnano contromelodie quasi celestiali. In ‘Ceaseless Inexhaustible Child’ ci pensa Cold Specks, con la sua voce nerissima e solenne, a sublimare la rabbia in un gospel accorato, mentre Theo Blackman su ‘Asiam’ sarebbe quasi banale, non fosse per i giochi coloristici della sua voce unita all’originale arrangiamento degli archi. Peccato per la fastidiosa ‘Rollcall For The Absent’, dove una voce di bambino recita i nomi di varie vittime di ingiustizie. I pezzi strumentali sono comunque la maggior parte, e si ricollegano in linea di massima a ciò che abbiamo sentito sul disco precedente, ma con un un accentuato desiderio di giocare con le attese dell’ascoltatore. Ed è proprio questo il trucco di Akinmusire, se così vogliamo chiamarlo: stabilire i groove e le atmosfere e poi deviare gradualmente dal percorso, utilizzando tutti i mezzi possibili per variare colore e densità. Non solo, perché tutti i brani si legano fra di loro in una narrazione ampia e profonda, al punto che il climax di un brano è dato, molto spesso, dal passaggio al successivo. Un’evoluzione sorprendente della musica sontuosa e cinematografica di Terence Blanchard, volendo.

Se quest’album ha un difetto, forse, è nell’eccessiva lunghezza, oltre che nell’insopportabile ‘Rollcall…’ summenzionata. La grande varietà di suoni, composizioni e atmosfere lo rende un vero e proprio viaggio, ricco di sorprese e svolte inaspettate, posizionate con cura e attenzione dall’autore che non perde mai di vista l’organicità e la coerenza dell’insieme. Post-bop, sonorità da camera, energia, delicatezza, indie-folk, gospel, soul, tip-tap, tutte sfumature di qualcosa di più ampio ed intenso. Il jazz del futuro? Di nuovo, non lo sappiamo. Ma portare avanti il jazz come una grande narrazione che metabolizza gli spunti offerti dalla realtà circostante (si tratti avvenimenti, sensazioni, o generi musicali) è una via stimolante. Condivisa pure dall’amico Gerald Clayton, fra l’altro, fresco autore del più riuscito ‘Life Forum’. Una percorso è tracciato, attendiamo altri esiti.
(Negrodeath)

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