FREE FALL JAZZ

Jazz At Lincoln Center. Inizialmente si trattava di una rassegna di concerti al Lincoln Center di New York, cominciata nel 1987. Nel 1998, un significativo passo avanti: alla rassegna fu dedicata un’area di 9000 metri quadri all’interno del prestigioso Time Warner Center di Manhattan. L’organizzazione era riuscita ad ottenere 131 miliardi di dollari con cui costruire tre aree da concerto modernissime, capaci di accogliere il trio, la band e l’orchestra con l’acustica migliore possibile. Un bel passo avanti rispetto all’antica visione del negro sudato nel locale fumoso che suona con l’anima – immagine stereotipata che per alcuni significa necessariamente “autenticità”, secondo una visione razzista al contrario dura a morire. Nel 2004 la nuova sede con le sue tre super sale è stata finalmente inaugurata. L’impresa del JALC, con tutte le notevoli difficoltà del caso, ha raggiunto il suo scopo, ovvero quello di dare un’immagine del jazz come di una musica che non deve chiedere scuse nè giustificazioni a nessuno, ma che vale in quanto tale. Un’ideale già insito nella filosofia di molti jazzisti, estrinsecata consapevolmente in tutti i suoi aspetti (anche di presentazione ed educazione) da Duke Ellington, e terreno di una battaglia trentennale per Wynton Marsalis. Che è stato bravissimo in tutti questi anni a continuare la sua missione di araldo, oratore, educatore, ambasciatore, e chi più ne ha più ne metta, del jazz. Oggi l’istituzione del JALC può vantare un budget annuale di 43 milioni di dollari (dagli iniziali 10), grazie ad una combinazione vincente di sponsor e donatori, pubblici e privati. Da rassegna di concerti a vero e proprio centro musicale ed educativo il passo non è certo scontato, ma Marsalis e i suoi ce l’hanno fatta. Il prossimo passo è la nascita di un vero e proprio brand, con l’apertura di altre due centri in Qatar e a Shangai (almeno per ora). Tutte le informazioni scritte qui sopra sono state prese da un articolo dell’Economist (link).

A questo punto, sembra già di sentire i caricatori dei soliti che sono pronti a scatenare, in maniera pavloviana, una jazz war non appena leggono “Wynton Marsalis”. In realtà, andare contro ad un simile raggiungimento è assolutamente dissennato e controproducente – soprattutto quando giornalmente ci si lamenta che il jazz non viene riconosciuto, non viene amato, non viene considerato etc. Piaccia o meno, Marsalis ha colpito un nervo scoperto: se il jazz ha valore ed è da considerarsi uno dei più prodigiosi lasciti culturali dell’America alla storia delle arti, bisogna farlo entrare nella sfera della “roba che conta” attraverso un percorso ufficiale, perché altrimenti sarà sempre preso per parente povero, secondario o che altro. Da lì all’individuazione di un canone afro-americano (nel senso estetico e culturale, di linguaggio, e non tanto di colore della pelle!) e la possibilità di interpretarlo in veste di repertorio, con correttezza idiomatica, il percorso è stato breve ma logico. Oltre a questo, la dimostrazione della vitalità corrente di questa musica mediante riletture e programmi a tema dedicati a nuovi artisti, nuove opere, linguaggi paralleli e affini nel segno sempre della grande musica americana.

Dai tempi di King Oliver le cose sono cambiate, non solo nel jazz in sè, ma anche nel modo in cui questo viene percepito. Una cosa come il JALC è quanto di più simile ci possa essere ad una medaglia d’onore per questa musica, dopo un secolo di condiscendenza, tolleranza malcelata e passione sincera (da parte dei molti fan e musicisti). Tra l’altro l’esempio del JALC, almeno in patria, sta diventando un modello per organizzazioni simili, vedi il SF Jazz Center. Bene, benissimo, JALC. Avanti così!
(Negrodeath)

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