FREE FALL JAZZ

COGNOME: Balducci
NOME: Pierluigi
LUOGO E DATA DI NASCITA: Bari 3 Ottobre 1971
PROFESSIONE: Bassista elettrico
PRINCIPALE ATTITUDINE CRIMINALE: pretendere di fare del Jazz in Italia.
CAPI D’ACCUSA: UNO – Produzione di svariati lavori discografici a suo nome, l’ultimo dei quali in collaborazione con terroristi e narcotrafficanti di fama internazionale come John Taylor, Paul McCandless e Michele Rabbia. DUE – Attivista didatta, divulgatore di informazioni e saperi presso le nuove generazioni, che vengono dunque irrimediabilmente deviate con dichiarazioni del tipo (cito alla lettera): “…superamento degli steccati e delle barriere tra le musiche e soprattutto tra le due estetiche – quella eurocolta e quella afroamericana […] non me ne vogliano i puristi, dei quali, programmaticamente, ci faremo un baffo”. Bach on the bass. Salatino Edizioni Musicali, 2009.
Ciao Pierluigi. Fai pure come se fossi a casa tua, accomodati qui su questa gelida e rigida sedia… Lo so, l’ambiente è un po’ buio e fumoso e questa luce sparata in faccia non è molto gradevole, ma ti abituerai presto… Ora ti urlerò addosso qualche domanda e tu risponderai senza troppe discussioni… CHIARO?!? Vedo che hai capito. Dunque, procediamo.

Parliamo un po’ del basso elettrico, strumento modernissimo ma che ha già dei personaggi a volte ingombranti a cui riferirsi o da cui sganciarsi, penso a Jaco Pastorius o Steve Swallow per citare giusto due giganti. Oltretutto tu usi spesso il cinque corde, cosa che nel jazz è poco usuale. Dicci un po’.
Ogni musicista non può che cercare se stesso, una propria autentica via, nella ricerca che quotidianamente affronta sul proprio strumento. Una ricerca incessante, sempre provvisoria: al momento, io credo di aver ritrovato nel mio basso a cinque corde – ma anche a 4 – sia il ragazzino che a 13 anni suonava la chitarra classica e amava il repertorio spagnolo e sudamericano di quello strumento, sia il bassista ventenne innamorato del be bop e del jazz moderno, sia il compositore che ad oggi affianca il bassista, e che ama il Brasile e l’Europa quanto il ventenne amava gli States. Se dovessi indicarti dei modelli, ben sapendo che mentirei – non ho mai divorato solo i dischi degli altri bassisti elettrici, neanche di quelli che più amo – ti indicherei Anthony Jackson, Steve Swallow e Richard Bona: loro sono dei grandi esempi di una naturale e perfetta integrazione tra basso elettrico e musicisti acustici. Non hanno bisogno di confinare il basso elettrico solo nel campo della fusion, del jazz-rock o jazz-funk, dove spesso le dinamiche si appiattiscono verso l’alto; quando senti questi grandi, come quando senti i miei dischi, troverai che il basso può esprimersi con una tale varietà dinamica e con un’espressività timbrica e soprattutto con un respiro tale, da potersi sposare perfettamente a strumenti assolutamente acustici.

Oltre ad essere un superbo bassista elettrico sei anche un compositore non da poco. Ci interessa molto questo aspetto, parlaci delle tue idee, un po dei tuoi dischi, fatti un po’ di pubblicità insomma…Biecamente, senza ritegno!
Va bene, ed io senza ritegno ti parlo delle formazioni in cui sono coinvolto e degli ultimi dischi che hanno partorito! Parto da quelle “storiche”: il mio ensemble e il trio Nuevo Tango Ensamble, scritto proprio così, con la ‘a’, all’argentina. Il mio gruppo ha una storia ormai più che decennale: agli albori, intorno al 2000, includeva il sopranista Roberto Ottaviano, il chitarrista Lutte Berg ed il percussionista Massimo Carrano. Poi si è evoluto seguendo come sempre le vie del mio cuore e della mia mente: ha incluso il fisarmonicista Luciano Biondini e il chitarrista Antonio Tosques, uno dei miei partner storici oltre che amico di una vita, e ha collaborato tanto con Ernst Reijseger, uno dei massimi esponenti del violoncello jazz, quanto col violinista barese Leo Gadaleta. L’assetto attuale del mio ensemble vede invece Paul McCandless  - oboe, sax soprano -, Michele Rabbia – non alle percussioni ma alla batteria – e il pianista John Taylor. In parole povere, ho l’onore e la fortuna di collaborare con alcuni dei miei “padri” e “ispiratori” musicali. Nuevo Tango Ensamble è un trio davvero “sincretico”, un po’ come tutta la musica quando si genera ed evolve, anche se molti paiono non accorgersene: al bandoneon Gianni Iorio, al pianoforte Pasquale Stafano. Si tratta di un trio tutto pugliese che parte dalla sintesi tra il Nuevo Tango piazzolliano e il jazz, ma va ovviamente molto oltre: ad oggi abbiamo un repertorio quasi interamente originale, col quale giriamo da anni davvero in tutto il mondo, anche se prevalentemente in Europa. Adesso, però, è il turno delle due formazioni più recenti: in primis, il trio messo su da un anno con il clarinettista Gabriele Mirabassi e il chitarrista classico Nando Di Modugno. Innamorati gli uni degli altri e del repertorio che abbiamo scelto con tanto amore, stiamo per pubblicare felicemente il nostro primo disco con l’etichetta Dodicilune, la stessa che ha prodotto il mio CD con John Taylor e Paul McCandless (‘Blue From Heaven’) e i miei dischi precedenti dal 2006 ad oggi, con la quale ho una sorta di esclusiva. Per finire, un inconsueto duo con un altro bassista elettrico, Viz Maurogiovanni, bravissimo e per molti aspetti geniale, col quale ho una forte, forte affinità. Se io volessi trovare un denominatore comune a queste quattro esperienze musicali, potrei certamente trovare l’amore comune per la tradizione di provenienza americana (nordamericana e sudamericana), per l’improvvisazione di matrice jazzistica e per la nostra tradizione classica europea, che noi non possiamo ignorare se non a costo di fare violenza a noi stessi. È nel nostro DNA di musicisti nati non ad Harlem, o a Manhattan, ma nella nostra meravigliosa penisola.

Infine due parole sulla didattica. Ha senso insegnarlo ‘sto jazz o no? Tu come ti regoli, come la pensi? Jazz e Conservatorio possono andare d’accordo così come stiamo messi in Italia? Cosa cambieresti? Cambieresti?
Sì, il jazz ha senso insegnarlo, eccome, ma dovrebbero essere garantite alcune condizioni. Innanzitutto che chi si iscrive ai diplomi di jazz ami davvero il jazz, lo ascolti con passione e curiosità irrefrenabili, che divori i dischi di jazz, che si costruisca un suo percorso di ascolti e di punti di riferimento nella smisurata produzione musicale del jazz. In tal caso, il maestro sarà un’ottima guida che potrà, se consapevole dei limiti del suo ruolo, fornire delle scorciatoie e degli indirizzi di studio, potrà svelare le vie più rapide che portino lo studente al raggiungimento di una matura competenza armonica, di un accettabile grado di autonomia creativa e consapevolezza nella tecnica di improvvisazione, di una conoscenza dei generi e degli stili del jazz. In tal caso, la didattica del jazz ha un suo perché. Il tutto crolla quando si incontrano studenti che si iscrivono al corso di jazz per motivazioni “altre” rispetto all’amore del jazz: perché lo vogliono i genitori, perché vogliono prendersi un diploma – in tal caso, più che mai soltanto un ‘pezzo di carta’ -, o perché – come amo dire per scherzo – il jazz gli è stato “ordinato dal dottore”. In questi casi il docente di jazz non potrà fare granché: impossibile fare le veci dell’ascolto “matto e disperatissimo” che ognuno di noi ha vissuto sulla propria pelle, né della pratica vitale sui palchi. L’altra condizione è che il docente sia quanto mai consapevole di non dover cedere alla tentazione di far replicare allo studente esattamente il suo personale percorso di ingresso nel mondo del jazz. Una visione ampia e “problematica” delle tecniche, dei percorsi possibili, degli stili, è caldamente consigliata. Per finire, è necessario che i docenti, tutti, siano anche concertisti, con una comprovata carriera sui palchi di jazzclub e festival. Talvolta, misteriosamente, nelle graduatorie dei conservatori riescono ad inserirsi “oggetti non identificati”, personaggi misteriosi che non suonano davvero il jazz sui palcoscenici o al massimo hanno suonato dietro l’angolo, nel loro paesello. Tutti siamo consapevoli che esistono grandissimi musicisti e affermati concertisti che non vogliono o non sanno insegnare; ma dobbiamo essere altrettanto consapevoli che non possono esistere, nella didattica di una musica quanto mai “pratica” e “tattile”, dei didatti puri scollegati dall’esperienza del palco, dell’interplay, e di quel sudore che copiosamente trasudiamo sotto i fari di un palco serio.

(Intervista raccolta da Carlo Cimino)

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