Sembra che ultimamente molti jazzisti vogliano impegnarsi nella madre di tutte le guerre, ovvero riportare il jazz al grande pubblico. Intento di per sè nobile, in cui si sono avventurati molti musicisti già nel passato. Unire jazz e suoni della musica popolare del periodo, del resto, può portare a risultati artisticamente eccellenti. L’importante è che siano gli altri generi di musica ad aggiungere suoni, colori e ritmi nuovi al jazz, e non il jazz a diluirsi in versioni strumentali dei generi suddetti. Un conto è Cannonball Adderley, un altro Chuck Mangione. Questa introduzione serve per inquadrare al meglio l’esordio su Blue Note di Takuya Kuroda, trombettista giapponese trapiantato a New York. ‘Rising Son’ è uno di quegli album che, sulla carta, tenta la suddetta unione mettendo insieme jazz e soul, hip-hop, funk. Su ‘Afro-Blue’ il tentativo riesce perfettamente: chitarra, basso elettrico, piano Rhodes innescano un bel groove di stampo neo-soul su cui tromba e trombone si inseguono su linee staccate e stimolanti.’PiriPiri’ segue le stesse direttive e fa di nuovo centro, con un bel tema solare e orecchiabile. Poi c’è il resto, che certo non è brutto, ma suona un po’ come una versione annacquata dei pezzi appena citati: (neo)soul jazz strumentale, orecchiabile, dove la batteria tiene il backbeat in maniera fin troppo statica e il flicorno sembra quasi timoroso di uscire dalle più ovvie implicazioni del tema. In generale, l’album suona asettico e poco comunicativo – volendo, “una buona musica di sottofondo”, la frase fatta che non vorremmo mai scrivere ma che inquadra alla perfezione la musica di Takuya Kuroda, almeno a questo giro.
Non definirei ‘Rising Son’ brutto, perché l’ascolto è certo piacevole e la band (in cui si segnalano gli ottimi Lionel Loueke alla chitarre e Kris Bowers al piano) ci sa fare. Ma generico, né carne né pesce, questo sì. Takuya Kuroda dovrebbe guardare Christian Scott, Tia Fuller o Gerlad Clayton per rimettere a fuoco le idee.
(Negrodeath)