FREE FALL JAZZ

No, non abbiamo sbagliato copertina. Certo, ‘A Night In Tunisia’ ha una delle front cover più note e riconoscibili della storia, eppure qui accanto ne vedete una diversa. L’arcano (che per i più attenti non sarà tale) è presto risolto: si tratta di un altro disco. Non sono molti a ricordarlo, ma oltre allo storico classico su Blue Note del 1960, la discografia di Art Blakey  (senza contare varie raccolte semi-ufficiali) ne contiene almeno un paio dal titolo uguale o molto simile: l’omonimo del 1957 su RCA, e questo ‘Night In Tunisia’ del 1979, che rispetto al ben più noto predecessore omette l’articolo.

Gli anni ’70 furono un periodo particolare per il batterista di Pittsburgh, ricordato più che altro per la partecipazione al progetto Giants Of Jazz in compagnia di altri monumenti tipo Gillespie, Monk e Stitt. La versione dei Jazz Messengers attiva nella seconda parte del decennio, pur autrice di buone prove come ‘In This Korner’ (del ’78), non è mai stata particolarmente celebrata, schiacciata da un lato dai leggendari “messaggeri” degli anni ’50 e ’60 (inutile fare nomi: se non li conoscete probabilmente siete capitati su queste pagine cercando su google “il mondo non si è fermato mai un momento”) dall’altro dalla formazione che negli anni ’80 porterà Blakey ad un quasi inaspettato ritorno di popolarità, con un giovanissimo Wynton Marsalis sugli scudi. A conti fatti è un vero peccato che questa line-up dei Messengers non sia durata più a lungo, ricca com’era di talenti in età più o meno verde: dall’eccezionale Valery Ponomarev alla tromba al contralto del prolifico Bobby Watson, passando per l’ottima meteora David Schnitter al tenore e i compianti James Williams e Dennis Irwin, rispettivamente piano e basso. D’altronde che la corte di Art Blakey negli anni si sia guadagnata la fama di “università” per prospetti non è affatto un caso.

‘Night In Tunisia’ resta una delle poche e più fulgide testimonianze del valore di questa formazione, frutto di una sessione unica (il 12 febbraio 1979 al Victor Studio di Tokyo) che vede il sestetto districarsi in un impresa tutt’altro che semplice: la rilettura di tre classici. In teoria non dovrebbe esserci nulla di eccezionale, la rilettura è una costante insita in praticamente tutta la storia del jazz, ma provate a mettervi nei panni di questi giovani virgulti: affiancare una leggenda del genere in ruoli che nel passato sono appartenuti a gente come Wayne Shorter, Hank Mobley e Benny Golson e per giunta cimentarsi in pezzi le cui note sono state consegnate direttamente alla storia dai vari Parker e Gillespie. Bastano però le prime battute della title-track a mettere in chiaro che il quintetto “operaio” che circonda il batterista non soffre di alcun timore reverenziale. La più nota versione di quasi vent’anni prima resta ben salda a guardarli dall’alto in basso, ma in 18 minuti i nostri sciorinano una prestazione maiuscola, per la quale è necessario appropriarci di termini di cui ultimamente spesso si fa abuso (anche a sproposito), ma in questo caso specifico assolutamente calzanti: interplay e groove. Il primo si rivela magnificamente quando Watson, Schnitter e Ponomarev si “chiamano”, si “rispondono”, si danno il cambio e si intrecciano con un vigore che risulta perfettamente complementare al ritmo nervoso e aggressivo, che pure nei momenti di (relativa) calma sottotraccia resta sempre pulsante e mai domo, fino a toccare l’apice nella parte centrale: un florilegio percussionistico che si riallaccia infine al tema d’apertura, per ricominciare tutto da capo in assoluta scioltezza. Che i ragazzi siano più che semplici mestieranti dell’hard bop diventa certezza nel blues caracollante di ‘Moanin’’, il quale da una parte conferma la fantasia e la capacità d’improvvisazione dei fiati, dall’altra è sorretto mirabilmente dal piano di un James Williams in autentico stato di grazia. Forse solo la conclusiva, golsoniana ‘Blues March’ mostra qualche piccolo segno di cedimento, ma il tutto avviene quando ormai la sensazione di trovarci davanti a una piccola macchina da guerra è già ben nitida.

Un recupero sarebbe quantomeno d’uopo, purtroppo però il disco è fuori catalogo da tempo immemore. La stampa in CD della Philips si è vista su Ebay a cifre da ipoteca tutto sommato ingiustificate: nell’usato (sempre online, a meno che non siate particolarmente fortunati) ancora adesso di tanto in tanto spunta fuori a prezzi decenti, dunque con la giusta dose di pazienza dovreste essere in grado di portarlo a casa senza impegnare i preziosi anelli della nonna. Se poi nel frattempo voleste ascoltarlo ugualmente non c’è bisogno certo che vi dica io come fare. (Nico Toscani)

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