FREE FALL JAZZ

Foto di DMV Comunicazione/Titti Fabozzi

Avevo pensato di aprire queste righe con un’introduzione tipo “Sabato sera ho visto il jazz. Il suo nome è Benny Golson”: pomposa quanto volete, ma, vi giuro, neanche troppo lontana dalla realtà. Di concerti (non solo jazz) ne ho visti tanti, ma davvero pochi sono quelli in cui lo spettacolo sul palco è capace di coinvolgere per tutto il tempo senza punti morti e, soprattutto, di lasciarti sulle labbra un sorriso a 32 denti, misto di divertimento e soddisfazione. Benny Golson ci è riuscito. E ci è riuscito perché sul palco il primo a divertirsi, forse anche più di noi, è lui stesso. Quelle assi le calca con l’entusiasmo del primo giorno: lo scruti un paio di minuti ed è chiarissimo che a lui piace stare lì e non desidera altro.

I 60 anni di carriera che porta sulle spalle si traducono in un piglio da entertainer a 360 gradi che tiene in pugno non solo la folla, ma anche i musicisti lo accompagnano in quasi un’ora e mezza di trascinantissimo hard bop: durante i loro assoli Golson non se ne sta in disparte aspettando di rientrare, bensì li incita, li guida, si diverte a sorprenderli, magari facendoli fermare in anticipo di proposito o intimandogli di suonare qualche battuta più del previsto, sempre col sorriso stampato sulle labbra. Un sorriso che diventa sornione quando, da navigato showman, prima di ogni canzone si approccia al microfono e snocciola aneddoti su aneddoti: parla di Philly Joe Jones, di Max Roach, di Art Blakey, racconta la genesi di ‘Along Came Betty’ (“Quella sera che incontrai Betty finimmo col conoscerci molto molto molto molto molto bene. Non posso dire di più: c’è mia moglie di là”), spiega quanto ancora senta la mancanza dell’amico Clifford Brown (ovviamente omaggiato con ‘I Remember Clifford’). Ciascuno di questi monologhi è seguito da un pezzo di storia del jazz (il presentatore della serata, non a torto, lo ha introdotto sul palco come “più che un compositore di brani, un compositore di standard”), che Golson e i suoi tre soci italiani ripropongono con la stoffa dei veterani. Un plauso in questo senso va al pianista Antonio Faraò, che impressiona per potenza e versatilità e a tratti pare davvero posseduto dallo spirito di Wynton Kelly; si comporta benissimo anche la sezione ritmica di Aldo Vigorito (contrabbasso) e Claudio Romano (batteria). Fanno in tempo a regalarci persino un ottimo inedito composto insieme (suonato in pubblico appena per la seconda volta, svelano), che stilisticamente segue la scia dei classici a cui è accoppiato: che sia il preludio a del materiale in studio da questa formazione? Mettessero su disco anche solo una parte della carica sprigionata sul palco, sarebbe un grandissimo lavoro.

Se il concerto di Shepp del giorno prima ha peccato di scarsa omogeneità, si potrebbe obiettare che con Golson accada il contrario: tutti i pezzi vengono sviluppati secondo lo stesso schema (inizio corale col sax sugli scudi, assolo di Faraò, assolo di basso e/o batteria, rientro di Golson per chiudere), con ogni probabilità si tratta anche di un espediente per evitare che il sassofonista resti a corto di fiato, e a dirla tutta riesce benissimo, anche perché lui a 84 anni di limitarsi a svolgere il compitino non vuole proprio saperne, anzi, gigioneggia quanto basta, infilando un paio di citazioni a Puccini tra una nota e l’altra. Concerto dell’anno. (Nico Toscani)

 

Comments are closed.