FREE FALL JAZZ

JD Allen torna nuovamente sulle nostre webpagine con un’intervista, si spera, interessante, a poco più di una settimana dalla recensione dell’eccellente ‘Grace’. Il sassofonista di Detroit è uno dei migliori musicisti dalla sua generazione, e pure il coraggio non gli manca: non tutti, forse, avrebbero messo da parte un trio così lodato e di (relativo) successo come il suo per la paura di essere entrato in una routine di lusso. JD ha preferito mettere da parte, per il momento, Gregg August (basso) e Rudy Royston (batteria) per concentrarsi su un gruppo e una musica completamente nuovi. Visti i risultati, non gli diremo certo di aver sbagliato! E quindi leggiamo volentieri le parole di questo musicista serio e simpatico, a tratti brusco, che non parla e non suona mai invano.

Dopo quattro album assai lodati in trio, sei tornato rapidamente in circolazione con un nuovissimo quartetto. Eri in cerca di qualcosa di completamente nuovo?
Sentivo che il trio era ormai diventato fin troppo confortevole, per tutti noi. La cosa è diventata lampante durante le registrazioni dell’ultimo disco, ‘The Matador And The Bull’. Soprattutto in un pezzo come ‘Santa Maria’: ho descritto agli altri cosa volevo, e l’ho fatto a parole, senza suonare nemmeno mezza nota nè accennare melodie, niente di niente. E’ venuto fuori esattamente quello che avevo in mente, e la cosa mi ha proprio spaventato. Avevo paura di essermi abituato fin troppo bene, per questo ho dovuto distaccarmi un po’ dal trio con qualcosa di molto diverso. Sono comunque sicuro che registreremo di nuovo insieme, più avanti.

Non hai mai pensato di aggiungere semplicemente un piano?
Suonare coi musicisti di ‘Grace’ mi ha permesso di imparare ad usare seriamente il piano, nel contesto di un quartetto. Penso che se avessi semplicemente reclutato in pianista, avrei ottenuto “il trio di JD Allen featuring un pianista”. Se vuoi studiare l’uso di un nuovo colore nella tua musica devi farlo onestamente, senza scorciatoie.

Nelle note di accompagnamento si parla di ‘Grace’ come di una narrazione in due atti. Puoi approfondire un po’?
I primi cinque pezzi (il primo atto) vertono sull’atto di fare una scelta, quella di abbandonare il noto per andare ad esplorare l’ignoto. Significa usare tutti gli strumenti culturali che ti sono stati instillati da piccolo, e realizzare che quegli strumenti potranno portarti solo fino ad un certo punto, e poi falliranno. Ad un certo punto tutte le credenze di una persona diventano il fondamento per la scelta fra luce e oscurità, vita e morte. Trovare e seguire la giusta ‘Load Star’ (titolo di uno dei brani, nda), la giusta stella guida, è l’unico modo per trovare la tua Grazia. Ho scelto Luke Skywalker (‘Luke Sky Walker’ è un altro brano, nda) come simbolo del primo atto, perché Luke dovette imparare a usare la Forza. Marc Chagall (‘Chagall’ è un altro brano ancora, nda) rappresenta l’amore per la casa, l’innocenza dell’infanzia, o una comunità vista dalla prospettiva di un bambino. Il primo atto è dunque sulla Luce in un mondo pieno di manipolazione. Il secondo è esattamente l’opposto, sull’essere anticonformisti. Nel secondo atto, il mio obiettivo era di suonare sempre “contro” la band. ‘Cross Damen’, un personaggio di Richard Wright, rappresenta il secondo atto.

Il sound della band è molto arioso. Che risultato avevi in mente, quando scrivevi la musica?
Volevo essenzialmente liberare il basso. Volevo renderlo più melodico e libero come la batteria, e tutto questo all’interno di una struttura. Credo che tutto risulti così arioso perché ognuno cerca attentamente di ascoltare gli altri. Puoi immaginarti di avere quattro conversazioni contemporaneamente? L’unico modo in cui può funzionare è ascoltando, e puoi ascoltare solo se non parli. Abbiamo cercato di improvvisare quattro cose differenti allo stesso tempo e di farle suonare come un’unica conversazione, e quindi era necessario che ci fosse il giusto spazio fra gli strumenti.

Avete provato molto prima di entrare in studio?
No, non abbiamo provato affatto. Siamo stati in studio per dieci ore. Io affronto le registrazioni come un concerto. Abbiamo suonato l’intero album per una cinquantina di volte, di nuovo e di nuovo ancora. Tom Tedesco dei Tedesco Studios fa andare il nastro avanti a oltranza, non mi piace registrare versioni. Se c’è un errore, vediamo di capirlo e farlo funzionare.

Sei d’accordo con Branford Marsalis, quando dice che in tanto jazz di oggi si presta troppa attenzione all’assolo complesso e troppo poco al contenuto espressivo e al suono del gruppo?
Credo che le grandi architetture restino sempre, le mode vadano e vengano.

Hai una vasta esperienza come sideman. Fra i lavori cui hai partecipato apprezzo tantissimo ‘Detroit’ di Gerald Cleaver (magari lo recensiremo nel prossimo futuro). Cosa ne pensi, a qualche anno di distanza?
Ogni lavoro di Gerald meriterebbe di essere studiato. Gerald ha radici molto profonde, ed è per questo che riesce ad affrontare qualasiasi tipo di discorso. Sono orgoglioso di aver preso parte a ‘Detroit’. E’ un disco che dovrebbe fare da richiamo per tutti i musicisti jazz di oggi, qualunque sia la loro estrazione, mainstream o avanguardia: il jazzista del ventunesimo secolo dovrebbe essere in grado di affrontare ogni tipo di sfida e contesto, senza limitazione. ‘Detroit’ prova che queste distinzioni sono del tutto inutili.

Il tuo nome ormai viene menzionato spesso fra i migliori talenti di oggi. Che impressione ti fa?
Mi stupisco ancora del fatto che il mio nome venga citato in qualche modo.

Chi sono secondo te i musicisti che determinano le correnti del jazz di oggi?
Non c’è una risposta. Chiunque faccia la sua arte, la viva e la porti al pubblico traccia una via.

‘Grace’ è dedicato ai tuoi nonni, ma pure a Butch Morris, recentemente scomparso. Come vuoi ricordarlo?
Butch Morris era un leader senza paura.

Recentemente Nicholas Payton ha sollevato una bella polemica con la questione del termine “jazz”, secondo lui da pensionare in favore di “Black American Music”. Orrin Evans e Marcus Strickland hanno appoggiato la sua causa. Tu cosa ne pensi?
La libertà di parola è il diritto politico di ogni individuo di esprimere il proprio pensiero, con ogni mezzo, alle persone. Il diritto alla libertà di parola è rinosciuto come diritto umano dall’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. E il sassofono ha ben ventiquattro tasti, e io devo esercitarmi.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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