Per anni, l’unica storia del jazz scritta in Italia è stata quella di Arrigo Polillo. Un testo ormai diventato classico e sempre efficace nella divulgazione del patrimonio jazzistico, tuttavia fermo agli sviluppi e alla prospettiva storica di trent’anni fa (per ovvi motivi). Il libro di Stefano Zenni viene dunque ad aggiornare la storiografia jazz italiana coprendo l’intera storia di questa musica, dal proto jazz al gran numero di tendenze dei nostri anni, attraversando nel frattempo New Orleans style, swing era, bebop, cool, hard bop, post-bop, free, improvvisazione radicale e così via. Rispetto alla maggior parte delle storie del jazz viene meno la corrispondenza fra capitolo del libro e periodo musicale, ovvero la classica successione in cui ogni nuova scena sembra cancellare la precedente; più realisticamente, il jazz si ramifica in tendenze che procedono in parallelo. Così, giustamente, negli anni ’50 e ’60 non ci sono solo hard bop, post bop e free, ma pure gli eccellenti album realizzati da Coleman Hawkins, la continua evoluzione di Duke Ellington eccetera eccetera. Allo stesso modo, negli anni ’60 molti musicisti si ponevano il problema di uscire dalla gabbia del chorus: Ornette Coleman, Miles Davis, Charles Mingus e la scuola Blue Note davano diverse soluzioni autonome e in contemporanea. E così via. Interessante pure lo studio del rapporto con tecnologia, danza, ambiente dello spettacolo e music business, dei flussi migratori, e assai lodevole il tentativo di far piazza pulita di tanti odiosi luoghi comuni, a partire da quello dei musicisti jazz ignoranti che suonano col cuore e l’istinto, oppure dell’impegno politico nato col free jazz. Per contro, non mancano pure delle perplessità . La prima è di carattere metodologico: l’autore sembra avvicinarsi al jazz con una mentalità da musica accademica. Questo lo porta ad una ricerca spasmodica di forme e strutture “scritte”, quasi fossero l’unico modo possibile per conferire validità al jazz, e ad elaborare gerarchie in tal senso, sorvolando sul concetto di continuum afroamericano e la relativa oralità . Perché insistere sulla passione di Armstrong per la lirica e la supposta influenza di un soprano di inizio secolo sul suo fraseggio? Sicuri che le esplorazioni foniche di Roscoe Mitchell (che certo rispondono, lato jazz, a problemi sollevati da Cage e Stockhausen) meritino così tanto più spazio dell’intera carriera di Woody Shaw (che ha lavorato nel solco del canone, portandolo avanti)? La seconda riguarda l’ultimo trentennio. Con un’arbitraria scrollata di spalle si decide che il jazz americano ormai abbia perso centralità ed importanza, e si sottintende che oggi le cose migliori siano altrove. Esperienze controverse ma ricche di significati (musicali e non) come quella di Wynton Marsalis vengono banalmente liquidate con poche parole, peraltro relative più alle affermazioni del trombettista che alla sua musica, mentre molto più spazio viene dedicato all’analisi di… Gianluigi Trovesi (ottimo musicista, ma non è questo il punto). La povera Maria Schneider, invece, non viene nemmeno citata di striscio.
Dalla lettura esce dunque un’immagine profondamente distorta del panorama più recente, in linea con certa critica e produzione discografica che universalizza il jazz dichiarando ormai irrilevanti i suoi elementi costitutivi e la sua cultura fondante. Una scelta, a mio avviso, poco condivisibile. Libro interessante e ricco di spunti, ma da maneggiare con cautela.
(Negrodeath)