Oggi non ne abbiamo bene idea, ma pare proprio che negli anni ’30 e ’40 Tony Murena fosse una cosa enorme in terra francese: musicista famosissimo, acclamato e riverito con rispetto quasi sacrale per aver contribuito in maniera determinante allo sviluppo della cosiddetta french musette, proprio lui che francese non lo era neanche per sbaglio. Non ci era capitato per sua scelta, da quelle parti: era nato (nel 1917) a Borgotaro provincia di Parma, e le poche fonti disponibili ci raccontano che le alpi le attraversò in tenera età in compagnia della sua famiglia, emigranti in cerca di fortuna come tanti in quegli anni. L’incontro con la fisarmonica fu propiziato da uno zio, che gliene regalò una attorno al suo nono compleanno, sperando che il piccolo Antonio, per tutti Tony, seguisse le orme di suo cugino, Louis Ferrari, che suonando il medesimo strumento iniziava a farsi un nome nei locali parigini. È proprio quest’ultimo nei primi anni ’30 a introdurre gradualmente Murena, appena quindicenne (e impratichitosi anche col bandoneòn), nel giro delle serate musicali, quando ancora si stava facendo le ossa nei parchi e per le strade, busker ante litteram in compagnia di un giovanissimo amico con cui s’incrocerà spesso: il chitarrista Didi Duprat. È il primo passo di un’ascesa che, almeno a livello locale, sembrerà inarrestabile.
Al massimo della popolarità Tony Murena trionferà soprattutto nelle declinazioni “da ballo” della musette (tango, valzer, pasodoble), ma di rilievo sarà anche la sua dedizione allo swing, che, durante gli anni della seconda guerra, gli varrà l’occasione della vita: la convocazione nell’orchestra del maestro Glenn Miller. Tutto sfuma a causa della prematura scomparsa del jazzista americano, ma in quanto a collaborazioni di un certo livello passano comunque alla storia le sue esibizioni in compagnia di un’altra leggenda: Django Reinhardt. Sono gli ultimi fuochi prima di un finale di carriera in cui il musicista adotterà, pare anche per motivi economici, uno stile meno “colto” e più popolare: dal ‘Letkiss’ (ballo importato in Italia dalle gemelle Kessler) a dischi come ‘Strip Tease Tango’, che, come il titolo suggerisce, tentano d’inserirsi nel filone iconografico “papettiano”.
Queste righe però non vogliono essere né una mera ricostruzione biografica né un’analisi critica dell’operato (il cui contatto col jazz d’altronde è solamente trasversale), quanto una celebrazione dell’uomo e della sua produzione, la quale, specie nelle connotazioni meno “da balera”, va annoverata tra le cose più viscerali e laceranti mai impresse su disco. Brani come ‘Nostalgia Gitana’ (1941), ‘Indifférence’ (1942) o ‘Triste Bolero’ sono musica da groppo in gola, lacrime e nostalgia perenne: note che trascendono il contesto in cui sono nate e affascinano anche a tre quarti di secolo di distanza proprio perché, perdonateci la semplificazione forse facilona, impregnate di emozioni senza tempo. Esemplare in tal senso fu, anni fa, il commento di un mio caro amico, che al riguardo disse pressappoco: “Ti fa venire voglia di essere un barbone che, bottiglia di vino alla mano, si rotola nelle pozzanghere sul ciglio di un marciapiede parigino”. Non penso esista modo per spiegarlo meglio. (Nico Toscani)