FREE FALL JAZZ


Qualche tempo fa un amico mi ha chiesto se conoscessi un musicista chiamato Erminio Furlo. No, mai sentito nominare. Bene, mi dice l’amico, si tratta “un jazzista d’avanguardia degli anni ’70 e ha inciso pure un disco oggi rarissimo. Strano, pensavo tu lo sapessi…” Da questa breve discussione mi si apre un mondo: quello, appunto, di Erminio Furlo, misconosciuto eroe del jazz italiano, sperimentatore audace, critico dei luoghi comuni sul jazz e con la testa rivolta sempre avanti, anche ora che è un uomo anziano. L’amico in questione di jazz se ne disinteressa, ma conosce Erminio da anni in quanto amico di famiglia. Il senso di ragno trilla: magari riesco a fargli un’intervista per FFJ! Erminio è un uomo cordiale e risponde subito di sì, così ci troviamo a casa sua, un piccolo rustico fra le colline versiliesi, per un’amabile chiacchierata.

Partiamo dall’inizio, Erminio: si presenti! Come ha conosciuto il jazz?
Mi chiamo Erminio Furlo e sebbene oggi pochi si ricordino di me, sono stato un umile ma determinato artigiano che ha saputo contribuire al panorama jazzistico. Sono nato nel 1936 a Pietrasanta, in Versilia, e ho scoperto il jazz da ragazzo, grazie a mio fratello più grande: fece amicizia con dei soldati americani di stanza a Camp Darby, vicino a Livorno. Loro gli fecero sentire il jazz – Count Basie, Buck Clayton, Duke Ellington, Dizzy Gillespie, ma anche Charlie Parker. Fu proprio la musica di Parker a colpirmi più di tutte, era velocissima e piena di asperità, ma aveva un’urgenza e un’energia davvero incredibili. A mio fratello non piaceva, per lui era casino, litigavamo sempre su Parker. Furono queste prime, innocue liti familiari a generare in me il germe del dissenso. Almeno, credo!

Ha pensato fin da subito a diventare musicista?
No, anzi, non ho mai seriamente preso in considerazione la cosa finché non ho sentito, successivamente, Ornette Coleman. Mi affascinava tantissimo la sua nuova concezione di musica, così rivoluzionaria e incompresa. Al punto che il fascismo, così radicato persino nel jazz, alzò subito la testa per addomesticarlo.

Fascismo?
Molti musicisti, espressione degli interessi del capitalismo bianco, come Miles Davis disprezzarono pubblicamente Ornette. Fu apprezzato e lodato da gente come Leonard Bernstein e John Lewis, anch’essi parte di un’estabilishment culturale reazionario volto ad annacquare e indebolire il messaggio di Ornette. Che, comunque, ha capito subito e ha detto “ok, grazie, ma preferisco fare a modo mio.”

Davvero trova il jazz potenzialmente fascista?
Ovunque ci siano industria, capitalismo, e una maggioranza, c’è fascismo. Magari inconsapevole. Il jazz è diventato quasi subito un prodotto d’industria come tutti gli altri, ma ha saputo anche veicolare messaggi volti a colpire il Sistema – iniziò Charlie Parker, poi Ornette, poi la stagione del free, poi l’improvvisazione radicale europea. Sono esperienze che hanno ridato il jazz ai musicisti e alla loro causa rivoluzionaria, lontana dalle grinfie del music business.

Torniamo a noi. Sappiamo che negli anni ’60 era andato addirittura in America. Un vero precursore, pure da questo punto di vista. Che ricordi ha di quell’esperienza?
Andai a New York essenzialmente per suonare e per conoscere l’ambiente da vicino. Avevo con me pochissime cose e il mio sax, un contralto usato che avevo comprato dalla banda di Pietrasanta. Lavavo piatti e pavimenti di giorno, la sera correvo nei vari locali a sentire i musicisti. Ho potuto toccare la scena con mano e credimi, alla fine è stato meglio tornare in Italia e partecipare alla stagione creativa degli anni ’70. A New York non avrei potuto cavare un ragno dal buco, da quanto l’ambiente è intollerante e chiuso. Pensa che in un periodo lavoravo al Village Vanguard, davo il cencio quando ad un certo punto vedo entrare Don Cherry e mi tremano le gambe. Provo a salutarlo goffamente ma inciampo e finisco contro un tipo seduto ad un tavolino: oltre a schizzarlo con lo scopettone, gli verso pure addosso il drink che teneva in mano. Si alza, digrigna qualcosa e mi tira un pugno, poi esce con la bellissima donna che aveva accanto e se va con la Ferrari parcheggiata lì fuori. Era Miles Davis. Inutile dire che persi il posto, e comunque ero al nero, e nel frattempo Don Cherry se n’era già uscito.

E di esperienze coi musicisti locali?
Figuriamoci! Là, ti ripeto, sono fascisti: se uno non suona come loro siano convinti che si debba suonare, ti buttano giù dal palco. Io avevo messo a punto un sistema musicale nuovo, rivoluzionario, che ho chiamato Intonazione Elusiva. Per farla breve, è il sistema per liberare completamente il musicista dalla musica e dal gruppo. Quando sai che il pezzo è in una certa tonalità, su una certa serie di accordi, o di scale, tu devi concentrarti su di essi e non suonarli, in modo da rivoluzionare l’intero contesto del gruppo. Quando devi eseguire una certa nota per una certa durata, scegli il timbro più lontano da quello degli altri musicisti, prendi la nota calante, soffia fortissimo nel lento e viceversa… otterrai una rivoluzione permamente che destabilizza e non può essere addomesticata, e fa una gran paura. Non mi capivano, dicevano che non sapessi suonare, che stessi cercando di imitare i versi di un maiale sgozzato con quello che doveva essere il mio primo sax, comprato al massimo in mattinata.

Davvero?
Davvero. Una volta iniziai a discutere di teoria musicale con George Coleman, che poi mi invitò a salire sul palco. Devo dire che lì forse sbagliai io, perché ero determinato a mettere in cattiva luce un esponente del jazz più fascista. Insomma, salgo sul palco con lui, Ron Carter, Harold Mabern e Roy Haynes per una jam afterhour. George annuncia ‘Cherokee’ e dà il tempo, 1,2,3,4, io parto con una serie di note fortissime mettendo in pratica l’Intonazione Elusiva. Si fermano tutti, si guardano fra di loro e scoppiano a ridere, pensavano scherzassi. Ricominciano, ‘Cherokee’, 1,2,3,4 e riparto come prima. A questo punto mi fanno capire che così non va bene, i bastardi. Secondo loro non sapevo assolutamente suonare e mi trinceravo dietro al termine ‘avanguardia’ e alle mie teorie bislacche…

E in Italia?
Al mio ritorno trovai un clima molto fertile. Erano gli anni di piombo, c’era tensione, ma pure molta creatività, molta partecipazione. Mi trovai spesso a suonare coi musicisti più disparati, da Giorgio Gaber a Mario Schiano. Peccato che non è stato documentato niente, allora non si poteva registrare tutto così, non c’era la tecnologia di oggi. Ricordo ancora quanto Demetrio Stratos mi ringraziò per avergli insegnato l’Intonazione Elusiva. E il bellissimo concerto all’Avalon di Montespertoli assieme al Saxophone Trio di Jacob Larsson. Insomma, c’era molto da fare.

L’unico disco di Erminio Furlo

In quegli anni incise il suo unico disco, vero?
Sì, il doppio ‘Freedom!!Expression!!!Evolution!!!!’, uscito nel 1973 per la minuscola CryWolf, che fallì nel giro di un anno. Purtroppo i master sono finiti chissà dove e le copie in giro sono ormai oggetto di collezione con prezzi folli. Era un ensemble di dieci elementi che comprendeva, fra gli altri, Sergio Nicodemo, Jacob Larsson e Leonardo “Lanny” Poffo. I pezzi erano tutti miei ed erano molto lunghi. Su DownBeat Ira Gitler scrisse che era la più colossale schifezza mai incisa: sono felice che i fascisti non abbiano apprezzato. Altro esempio: in uno dei famosi “blindfold test”, Charles Mingus si chiedeva se fosse un disco jazz o se avessero gettato un microfono in un macello. Che superficiale! Del resto mi pareva sopravvalutato pure a New York, quando mi cacciò a calci dal minuscolo palco dell’Hoax (un locale-laboratorio musicale chiuso ormai da anni, nda) perché, secondo lui, non riuscivo a tenere il tempo. In realtà io stavo mettendo a punto un’altra mia tecnica, il Ritmo Paradosso, ovvero suonare e accentare le note secondo una pulsazione qualunque non condivisa da nessun altro membro del gruppo. Mingus e i suoi erano semplicemente troppo indietro, da un lato li capisco pure.

Quando ha smesso di suonare?
A metà anni ’80 mi stufai definitivamente della musica. Nessuno voleva più affrontare il Sistema. Nessuno tirava più molotov ai concerti dei borghesi e dei fascisti. Il jazz non aveva più motivo di essere, a quelle condizioni. Per lo meno, non come lo intendo io, come rivolta permamente.

C’è qualche musicista italiano di oggi che stima?
Mi dispiace, ma non seguo più la scena. Posso solo dire che Enrico Rava, che ormai finge di non riconoscermi, in realtà mi vuol bene come a un fratello, e lo so. L’ultima volta che ci siamo parlati, tipo trentacinque anni fa, mi disse che mi ammirava perché non ero mai cambiato, ma per lo stesso motivo era impossibile suonare con me. Lo dicevano tutti, del resto. Io ero sempre un passo avanti a chiunque. E’ il jazz.

Ora cosa fa?
Niente, sono in pensione. Mi piace riprendere il sax, ogni tanto, e farmi qualche passeggiata in collina suonandolo. Ultimanente mi era anche venuta un’idea: rielaborare i canti popolari dell’Alta Versilia in chiave jazzistica, e incidere un disco. Magari di solo sax. Un’idea che, tra l’altro, Anthony Braxton mi deve aver rubato, lo sai? Io ero lì che provavo in una cabina del telefono, a New York, e lui giovanissimo, che passava di lì, mi guardò strano…

AGGIORNAMENTO: Erminio Furlo ci ha concesso di digitalizzare il suo album, dalla copia rimasta in suo possesso, perché sia disponibile gratuitamente a tutti. Lo potete scaricare da qui.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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