Innanzitutto un’esortazione che mi pare doverosa, altrimenti la mia coscienza non mi lascerebbe in pace: attenzione. Fate MOLTA attenzione. Quando vi approcciate all’ascolto di questo disco, assicuratevi di non tenere il volume troppo alto pigiando play: si apre a tradimento con uno strepito di sax che pare una via di mezzo tra unghie che strisciano su una lavagna e la sgommata apocalittica di una corsa clandestina. Io non lo sapevo, e premere quel fatidico play mi ha estorto blasfemie. In verità qualche blasfemia me l’ha strappata anche il resto dell’ascolto, ma procediamo con ordine.
La storia vuole che Gayle si vide sfumare, nei lontani anni ’60, la possibilità di incidere un disco per la ESP nel momento in cui l’etichetta era la principale ambasciatrice del free jazz nel suo periodo di massimo splendore. Oggi, quasi 50 anni dopo, un disco del sassofonista newyorkese su quella etichetta esce per davvero, ma chi si aspettava una buona replica all’ottimo ‘Streets’ di qualche mese fa è destinato a rimanere deluso. ‘Look Up’ contiene materiale risalente al 1994, con ogni probabilità il miglior periodo della carriera di Gayle, il problema vero è la registrazione completamente amatoriale che rende l’ascolto arduo anche per le orecchie più audaci. In alcuni punti più che un disco free jazz sembra di ascoltare una field recording catturata a Napoli la notte di capodanno, tra sax stridenti come quei petardi che fischiano (li chiamano fischiabandiera) e batteria incessante modello pallone di Maradona. Il basso, povero lui, è inaudibile: si ha prova della sua esistenza solo quando i due più rumorosi colleghi si prendono una pausa e lo lasciano solo al centro della scena.
Aguzzando con uno sforzo sovrumano i padiglioni è possibile udire il miglior Gayle qui e lì (d’altronde l’anno, dicevamo, è pur sempre il 1994), ma è davvero troppo poco per chiudere un occhio, per quanto l’album offra anche l’opportunità di ascoltarlo insolitamente alle prese col clarinetto basso in ‘I Remember Eric Dolphy’ (appunto). Insolita, ma anche fastidiosa e dispensabile è poi ‘In The Name Of The Father’: base di batteria tonante e pippone spoken word di Gayle a tema para-religioso traboccante chicche tipo “Non potete amare Ayler se non amate anche Padre, Figlio e Spirito Santo”.
La registrazione è praticamente da bootleg (in particolare quelle che in gergo si indicano come “audience recording”, peraltro neanche della miglior foggia) e, a titolo di cronaca, specifichiamo che risale alla sua prima tournée lungo la west coast (i brani provengono dalla data di Santa Monica, per la precisione), accompagnato da Michael Bisio al basso e Michael Wimberly alla batteria. Si potrebbe giustificare la pubblicazione ufficiale con teorie tipo “valore storico”, ma del Gayle in trio di quegli anni esistono testimonianze dal vivo decisamente meglio curate come ‘Live At Disobey’ e ‘Berlin Movement From Future Years’. Restano, alla fine della fiera, un paio di curiosità buone per i completisti più coraggiosi e un bel mal di testa. Tenere la Novalgina a portata di mano. (Tony Aramini)