FREE FALL JAZZ

L’anno era il 1995. Forse l’ultimo della stagione d’oro della cosiddetta eurodance, che di lì a poco avrebbe sparato i fuochi conclusivi. In mezzo a tante canzoni che impazzavano tra radio, TV e discoteche ce n’era una in particolare che si distingueva dalle altre, e non c’è bisogno di chissà quale memoria per ricordarla. Non la cantavano ragazze dalla voce squillante né qualche nerboruto rapper: l’insolito interprete era un signore sulla cinquantina dall’aria simpatica, riconoscibilissimo per la Fedora alla Tom Landry sempre incollata sul cranio e il baffo pronunciato modello birra Moretti. Su quella base fatta su misura per le piste da ballo dell’epoca, costui si esibiva in attorciglianti scioglilingua in stile scat, e infatti si presentava con un nome che era tutto un programma: Scatman John. I milioni li fece con un ritornello martellante che per tutti era una cosa tipo bi bo bo bo bobò (scopro solo oggi che, a quanto pare, diceva ski ba bop ba dop dop. Potenza dell’internet), completato da un testo motivational (“Don’t let nothin’ hold you back / If the Scatman can do it so can you”) che spiegava come quel tipo di cantato jazz avesse aiutato lui, balbuziente, ad accettare quel difetto di pronuncia che per anni l’aveva condizionato, spingendolo persino a un passo dal baratro: “Avevo così tanta vergogna della mia balbuzie che per anni mi sono quasi ucciso con alcool e droghe”, rivelava in un’intervista.

All’anagrafe si chiamava John Larkin e, prima di emigrare a Berlino e “diventare” Scatman John, col suo nome di battesimo per lunghi lustri si è esibito nella natia California come pianista jazz: “Pensavo di poter esprimere meglio le mie emozioni nascosto dietro un pianoforte, piuttosto che con le parole”. Negli anni di massima fama si venne a sapere che a metà degli ’80 aveva inciso un misterioso disco omonimo: “Dovrei averne ancora una cinquantina di copie in uno stipetto”, raccontava. Per un bel pezzo non si è saputo altro di quel fantomatico album, e il primo assaggio dei suoi “anni jazz” è arrivato solo nel 2001, quando la raccolta ‘Listen To The Scatman’ propose su CD dei brani tratti da alcune sessioni di quel periodo. L’album vero e proprio, uscito nel 1986, ebbe solo diffusione locale, e non a caso il primo a rintracciarne una copia “documentata” è stato Jason McGuinness, collezionista che risiede proprio a Los Angeles. Trasferì il vinile in digitale e lo pubblicò sul suo blog, Analog Burners, dedito, come suggerisce il titolo, alla digitalizzazione di album ormai fuori catalogo. Tempo dopo, ritirando un nuovo lotto di dischi, si ritrovò clamorosamente con una seconda copia tra le mani: dopo una trattativa lampo degna dell’AtaQuark Hotel nell’ultimo giorno di calciomercato, l’agognato pezzo di vinile arrivava finalmente a casa mia.

S’intitola, appunto, ‘John Larkin’ (Transition Records) e vede la sua genesi nell’incontro tra il futuro Scatman e un altro reietto devastato dai vizi: Joe Farrell, sassofonista con un curriculum ben noto che spazia dalla fusion di Return To Forever e Billy Cobham a istituzioni come Elvin Jones e Andrew Hill fino a un eroe dimenticato come Jaki Byard, per non parlare di una carriera solista entusiasmante e multiforme. Già con un piede nel baratro, Farrell si trasferisce a Los Angeles nel 1983 e qui vive gli ultimi spiccioli di carriera, che lo portano a unirsi in quartetto con, appunto, Larkin e la sezione ritmica formata da Clark Woodard (batteria) e Bob Harrison (basso). Il disco, frutto di due sessioni distinte a cavallo tra ’84 e ’85, suona “schizzato” e imprevedibile proprio come i suoi  interpreti; volendo sintetizzare al massimo, potremmo dire per convenienza che si tratta di avant jazz, ma renderebbe solo parzialmente l’idea. Salta all’orecchio uno stile pianistico a tratti memore della lezione di Lennie Tristano ma anche del citato Andrew Hill, per giunta calato in contesti che sono tutto e il contrario di tutto. L’apertura di ‘The Misfit’ (che John parli proprio di sé?) è dura, nervosa, a velocità spasmodica, col basso che pulsa come se non ci fosse un domani e il tenore di Farrell che nemmeno sull’intricato ‘Outback’ suonava così minaccioso; quando il passo finalmente rallenta arriva l’inquietante recitato di Larkin (quasi alla Tom Waits) a rendere l’atmosfera ancora più straniante. Il resto è persino più spiazzante, perché la melodica ‘Last Night I Dreamed’ è in pratica un pezzo vocal jazz (seppur contraddistinto da un certo tasso “alcolico”), mentre ‘Love Cry’ riprende il discorso di ‘The Misfit’ in territori che iniziano ad avvicinarsi al free; sottogenere, quest’ultimo, a cui il quartetto si concede definitivamente nei nove minuti della successiva ‘Angel’s Flight’.

Se vi pare già troppa carne al fuoco, sappiate che non è finita: c’è ancora un pezzo intitolato, pensate un po’, ‘John Coltrane’, e si tratta di tre minuti e mezzo di virtuosismi vocali in stile scat accompagnati da strumenti sempre più dissonanti con tanto di coda semi-cacofonica. È il preludio alla chiusura con ‘Softly As In A Morning Sunrise’, unica rilettura in programma (tutti gli altri brani portano la firma di Larkin), forse la versione più straripante e ricca di groove mai cucita addosso a questo classico, che nelle loro mani si trasforma in una sorta di indomabile hard bop.

L’album è dedicato a Joe Farrell: il cancro se l’è portato via nel Gennaio dell’86, prima che il vinile andasse in stampa. La scomparsa del sassofonista e l’incontro con Judy, che presto diventerà sua moglie, saranno le molle che fanno scattare in Larkin la voglia di rimettere insieme i cocci e ricominciare da zero in piena sobrietà. Quando la sua voce farà nuovamente capolino su un disco saranno passati quasi dieci anni, e per una breve ma intensa stagione Scatman John conquisterà mezzo globo. Nonostante quelle soddisfazioni commerciali, resta il rammarico per non avergli visto raccogliere nulla in ambito strettamente jazz, dove un po’ di fortuna in più l’avrebbe meritata. Se una malattia non si fosse portato via anche lui (nel tardo ’99), magari un giorno ci avrebbe riprovato. Chissà. (Nico Toscani)

NB: alcuni brani di questo disco (assieme a versioni alternative e outtakes provenienti dalle stesse sessioni) sono disponibili in formato CD su un album omonimo accreditato a Clark Woodard & Joe Farrell (2006, BCS Records).

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