FREE FALL JAZZ

Rispetto alla prima serata c’è più gente, trovare posti a sedere è impresa assai ardua e molti sono quelli che si accomodano in piedi ai lati delle poltroncine. Verrebbe da pensare che gli appassionati di jazz sono tutti qui per non perdersi l’appuntamento importante, non fosse per il viavai di gente che con nonchalance si alza e si siede per tutta la durata del concerto, tra ritardatari che chiedono se quel posto vuoto è occupato, curiosi che guardano un paio di pezzi e via, altri che tolgono le tende dopo mezz’ora per chissà quale coprifuoco (alle 23 la loro utilitaria si sarebbe trasformata in zucca?) e altri ancora che si aggirano come avvoltoi, pronti a fiondare il deretano sul primo quadrato di plastica che resta libero. Come se non bastasse, a un certo punto ti giri e scopri una coppia più o meno matura che DORME abbracciata. A pochi posti di distanza, una signora segue l’esempio.

No, la colpa non è di Lee Konitz: lui poco prima delle 22:30 sale sul palco e, immarcescibile, porta in Italia un po’ di east coast. Cappellino degli Yankees, giacchetta da pescatore e aria di chi bada al sodo (pur chiacchierando abbastanza tra un brano e l’altro), attacca con quell’inconfondibile contralto parco di vibrato ed è impossibile non emozionarsi davanti a un pezzo di storia. Non c’è tempo per badare alle piccole sbavature, a far notizia semmai sono fiato ed energia, che non mancano affatto: in questo il nostro è sostenuto benissimo dai tre virgulti che lo accompagnano, in particolare dalla robusta e dinamica sezione ritmica di Dan Weiss (batteria) e Jeff Denson (contrabasso). Proprio quest’ultimo, assieme al pianista Florian Weber, si ritaglia degli spazi in prima linea piccoli ma significativi, che permettono al leader di ricaricare le batterie e mantenere sempre un certo smalto.

Quando al preciso scoccare del sessantesimo giro di lancetta finisce tutto, la soddisfazione è tanta: per appassionati della mia generazione, cresciuti mentre Miles Davis litigava con Wynton Marsalis e suonava con Zucchero, poter ascoltare dal vivo gente come Lee Konitz (pur sempre un classe 1927) ancora in buona forma è l’ultima (parziale) possibilità per “toccare con mano” una generazione di jazzisti basilare, della quale si è potuto solo fantasticare grazie ai libri, alle immagini e, soprattutto, ai dischi. Non si batte il classico. (Nico Toscani)

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