FREE FALL JAZZ

Come molti della mia generazione, ho conosciuto Joe Jackson grazie alla cover di ‘Got The Time’ fatta dagli Anthrax. Da allora ho sempre provato la massima simpatia per Joe, musicista pop inglese difficile da incasellare e da sempre innamorato del jazz (vedasi il suo classico lp  ’Night And Day’). Quest’anno arriva nei negozi ‘The Duke’, un nuovo album interamente dedicato a… riletture ellingtoniane, proprio così. Per l’operazione Jackson non ha badato a spese, assemblando un cast di musicisti molto eterogeneo: da jazzisti di fascia altissima (Regina Carter e Christian McBride) al chitarrista riccardone Steve Vai a ?uestlove dei grandi The Roots per finire con Iggy Pop, ex ragazzaccio terribile riconvertitosi con successo in icona glamour per tutte le stagioni – e qui citiamo giusto i più noti. La cosa non dovrebbe sorprendere, perché più volte il cantante ha parlato di Ellington come del suo compositore preferito assieme a George Gershwin e Cole Porter.

Ok, fatta luce sulle premesse, passiamo all’album. Si comincia con ‘Isfahan’ (dalla ‘Far East Suite’), e se il buon giorno si vede dal mattino, è meglio uscire con impermeabile e ombrello: la melodia portante c’è, ma il pezzo nell’insieme suona come un generico sottofondo da cocktail bar con enorme dispiego di synth, chitarre elettriche e percussioni esotiche quanto un paio di maracas di plastica (si tratta dell’impasto timbrico generale del disco), e se non ci fosse scritto ‘Joe Jackson’ sopra nessuno prenderebbe sul serio un brano che pare uscito da una qualsiasi anonima compilation chill out & relax. Stesso discorso si può fare per ‘Perdido’, che diventa un’insulsa cartolina di electro-bossanova. Saltabeccando qua e là, la povera Regina Carter fa il possibile per trasformare ‘Mood Indigo’ in uno swing-manouche stile Reinhardt/Grappelli, ma il legnoso arrangiamento rende vano ogni suo sforzo; ‘Caravan’, impreziosita da vocalizzi orientaleggianti e dal forte tiro di ?uestlove, prende una fisionomia da fusion latinoide anni ’70, ben poco esaltante; e quando un annoiato Iggy Pop gioca al crooner su ‘It Don’t Mean A Thing’ (con tanto di fastidioso drumming programmato) viene una gran voglia di colpirlo con un cric.

Alla fine, più che un divertissement simpatico e ironico, ‘The Duke’ suona come un pretenzioso e iperprodotto album di muzak, nato vecchio al momento stesso della sua concezione. E non lo diciamo per fare i severi censori, stile “jazz ai jazzisti!!!11!!”. Lo diciamo perché è brutto.
(Negrodeath)

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