FREE FALL JAZZ

Tra i musicisti più talentuosi in giro oggidì mi pare necessario fare il nome di Christian Scott, trombettista di New Orleans che sta facendo parlare molto di sè da qualche anno a questa parte. E, aggiungerei, giustamente. Non solo perché è giovane, bello, stiloso e supercool dalla testa ai piedi, e quindi perfetto anche per copertine e photosession patinate, ma proprio perché è bravo. E non solo: ha idee chiare, una lingua tagliente e una precisa visione progettuale della propria musica e della propria carriera. Se c’è un giovane che possa rappresentare il qui/oggi del jazz, per me è lui. I quattro album usciti dal 2006 a oggi ci mostrano un musicista che è stato capace di importare nel jazz ritmi e suoni propri di hip hop, funk ed r’n'b, in modi decisamente originali, così come le sonorità enigmatiche e minimali del post-rock ed un forte spirito antagonista, insofferente verso luoghi comuni, tradizioni imbalsamate e preconcetti.

La sua formazione è stata certamente privilegiata: zio Donald Harrison (!), notando l’elevata propensione musicale del nipote, se lo porta in giro per un anno e mezzo sui palchi di mezzo mondo quando è solo un sedicenne che suona da quattro anni. Questa esperienza ha permesso a Christian di farsi le ossa prestissimo in un contesto collaborativo, con una band di adulti ed esperti, arrivano quandi alla maggiore età con un bagaglio inestimabile di teoria e prassi. Da lì l’ingresso e la laurea presso il Creative Center Of Arts di New Orleans e la Berklee School Of Music (completata in metà del tempo normale), numerose vittorie in concorsi ed esibizioni, una fitta attività di turnista per musicisti jazz, soul e hip hop. Un rodaggio imponente e non comune, si capisce, che lo ha portato ad elaborare un suono, un’estetica, un’autorità all’età in cui la maggior parte dei musicisti di oggi inizia le prime incisioni e le prime avventure come sideman. Come trombettista, Scott si trova perfettamente a suo agio in ogni registro e in ogni tipo di situazione. Con la sordina, sul registro medio, con frasi eleganti dove le pause e le note hanno la stessa importanza, l’ombra di Miles Davis si fa evidente, ma con una notevole personalizzazione: il soffio diventa parte integrante di un suono che rende le frasi aeree e astratte. Immaginate un incrocio impossibile fra lo stile di Davis e quello di Ben Webster (durante i lenti ovviamente), o qualcosa di simile. Quando suona a tromba aperta, il suo fraseggio si fa incisivo e potente, con una sonorità spessa e grassa, tipicamente New Orleans, discendente diretta di Wynton Marsalis e soprattutto Terence Blanchard. E per quanto ben caratterizzati siano, individualmente, i dischi, il filo rosso che li unisce è chiaro: la batteria, dal rullante secco e metallico che accenta il backbeat, scolpisce uno spazio sonoro su cui tromba, piano e chitarra (sempre presenti) fluttuano e si intrecciano secondo trame ipnotiche, mentre al basso (elettrico o acustico a seconda dei casi) spetta il compito di ancorare la band e contemporaneamente di darle un’ulteriore pulsazione più elastica. La visione artistica di Christian è quella di scrivere musica che sia oggi significativa, capace di elaborare gli stimoli sonori e sociali presenti in forma nuova e originale, facendosi allo stesso tempo carico dell’eredità jazzistica. Come testimonia la discografia realizzata fino ad oggi, ci siamo.

 

Rewind That (2006)

L’apertura, affidata alla title track, mette subito in chiaro che non si scherza: un tagliente riff di chitarra, vamp di basso elettrico e batteria funk che disegnano un reticolo poliritmico implacabile che smuoverebbe un dimetrodonte, la tromba di Scott che entra sicura, prima in sordina per poi esplodere su note acute e potenti, assecondata dalla band che alza i toni e l’intensità di pari passo. C’è pure il piano elettrico, usato più che altro in funzione coloristica per stendere un tappeto liquido e funk, e l’eccellente tenore di Walter Smith III a duellare con tromba e chitarra. Rewind That, il brano, detta poi il passo a tutto il resto del cd, all’insegna di un jazz profondamente urbano, cupo, ritmicamente modernissimo, eppure arioso grazie alle splendide melodie elaborate dal leader (autore di quasi tutti i pezzi), sicuro di sè fin dal primo momento. I temi e le tessiture sonore hanno un deciso sentore di r&b odierno, inteso nel senso nobile del termine (che so, Lauryn Hill o Erykah Badu); i brani fluiscono con naturalezza uno nell’altro, e fin dai titoli disegnano arco narrativo sinusoidale fatto di momenti languidi, ma sempre con un ritmo nervoso che pulsa sottopelle, e altri muscolari e potenti, irrorati di moderno funk, hip hop e perfino elettronica. Non che siano presenti drum machine o campionatori, piuttosto la scansione ritmica rielabora pattern tipici della musica elettronica. L’illustre zio Donald Harrison fa la sua comparsa in pochi brani: una compatta e superfunkyzzata versione del classico So What, nella sua Paradise Found e nella magnifica Suicide, per me il brano capolavoro del disco, in cui il contributo harrisoniano è davvero di gran classe. Disco che spacca davvero il culo per profondità, idee, interplay ed esecuzione – a ventidue anni!

 

Anthem (2007)

La Concord decise di promuovere questo cd come “meditazione sull’uragano Katrina”, complice il fatto che Scott sia di NO e che un pezzo si chiami Katrina’s Eyes. In realtà Anthem è un disco che riflette, o indaga, o medita, fate voi, sull’insicurezza, il disagio, il pericolo e la paura in cui viviamo. Con un organico variabile in cui compaiono il fido Walter Smith III al sax tenore e Louis Fouchè al contralto, Esperanza Spaulding e Luques Cortis al basso/contrabbasso, Matt Stevens alla chitarra, Aaron Parks al piano e Marcus Gilmore alla batteria, Scott scrive di nuovo la maggior parte dei brani assorbendo input dal post rock e dalla musica minimalista americana (Philip Glass e Stephen Reich in particolare) per dipingere un universo plumbeo e raggelante. Spesso infatti il pianoforte indugia su ripetizioni e microvariazioni di cellule sonore minimali, percussive e spezzettate, suonate da Parks con un tocco leggero e risuonante che accentua l’effetto malinconico – l’inizio di Litany Against Fear, che apre il disco, è paradigmatico, con la breve figura glass-esca ribattuta dal pianista e la band che entra un pezzo alla volta, creando un’atmosfera cupa, di dolore partecipato. La potenza della sezione ritmica, rinforzata dal timbro metallico della chitarra di Stevens e da una batteria asciutta e minimale, crea un costante clima minaccioso e teso, rischiarato dalla splendida tromba di Christian Scott, da sola o in amichevole duello coi sassofoni. Il disco, con ammirevole coesione, prosegue lungo i binari dettati dal pezzo dapertura secondo un preciso percorso cinematico/narrativo. Re: è un pezzo ritmicamente molto potente con un forte sapore blues nell’accezione più dolente e letterale del termine; in Cease Fire, Scott e Fouchè disegnano un’incantevole melodia su un groove hip-funk coinvolgente; Dialect è un pezzo sinistro, con un piano ridotto al supporo ritmico e un’interazione di tromba e contralto sempre più serrata e stridente; The Uprising, dove Scott sviluppa il tema fino ad arrivare ad un climax ricco di speranza, ha un effetto catartico di grande suggestione; The 9 trasfigura l’antico jazz di New Orleans, procede come una processione guidata dai tre fiati che si rincorrono e si stimolano; la title track figura in due versioni, accomunate dallo stesso tema laconico affidato al piano, ma nella seconda, posta a conclusione del disco, c’è ospite Brother J dell’XClan a riassumere col suo perentorio rap tutte le tematiche dell’album. Disco davvero visionario e speciale, forse difficile da digerire lì per lì – per inciso io ho scoperto Christian Scott proprio grazie a questo cd, e c’ho faticato un po’, ma ritengo ne sia valsa la pena.

 

Live At Newport (2008)

Registrato, come suggerisce il titolo stesso, al Festival di Newport, questo lavoro testimonia l’eccellenza della band di Christian Scott pure dal vivo. Nella scaletta figurano alcuni pezzi nuovi – fra questi, Isadora troverà spazio nel disco in studio successivo. La qualità della registrazione è buona anche se il volume del mixaggio è stranamente basso. Ritroviamo Aaron Parks, Matt Stevens e Walter Smith III in una performance di grande intensità, che passa da toni sottomessi e intimi a fragorose esplosioni di energia con una naturalezza incredibile. L’iniziale Died In Love vive del contrasto fra una tromba che sussurra frasi enigmatiche e una sezione ritmica ribollente, con la batteria del bravissimo Jamire Williams che deforma a suo piacimento lo spazio sonoro. Altro pezzo da novanta è Rumor, un quarto d’ora introdotto dalla batteria su cui si innestano uno alla volta tutti gli altri strumenti: è un brano che cuoce a fuoco lento grazie agli eccellenti contributi di tutta la band. Forse il pezzo migliore del disco, in cui si mette in mostra la chitarra cerebrale di Matt Stevens. Per il resto le nuove versioni di Litany Against Fear, Anthem e Rewind That sono più lunghe e permettono ai solisti di esplorare in maniera più compiuta e approfondita atmosfera e melodia. Su Litany Against Fear la parte del leone spetta a Smith, che costruisce un assolo particolarmente coinvolgente, pieno di spigoli nel finale concitato, che avrebbe reso felice Joe Henderson! Formazione estremamente coesa, musicisti dalle idee chiare, esecuzione magistrale. Terzo passo nella giusta direzione. E poi considerate che al prezzo di un solo cd cè pure il dvd dello stesso concerto!

 

Yesterday You Said Tomorrow (2010)

YYST è un disco ambizioso fin dalle note di copertina. Scott dichiara esplicitamente di voler creare musica che sia in relazione con gli accadimenti dei nostri tempi tanto quanto lo furono, negli anni ’60, le opere di Ornette Coleman, John Coltrane, Charles Mingus, Curtis Mayfield, Jimi Hendrix e Bob Dylan. La scelta di far registrare l’album da Rudy Van Gelder in persona, ormai ottantenne, per di più nei leggendari Van Gelder Studios del New Jersey, alza ulteriormente la posta. A questo punto potremmo pure aspettarci un disco pretenzioso e didascalico destinato al frizzo e al lazzo. Potremmo, se quelle parole fossero uscite dalla bocca di un mediocre cazzaro qualsiasi, tipo Morgan, Allevi o coso lì dei Baustelle. Ma non è il caso, visto che questo lavoro straordinario forse sintetizza e supera i suoi eccelenti predecessori. Il quintetto (oltre al leader, Matt Stevens alla chitarra, Milton Fletcher al piano, Kristopher Keith Funn al contrabasso e Jamire Williams alla batteria) sceglie un suono caldo e organico, massiccio, con la batteria in primo piano. Williams usa il suo strumento alla maniera “orchestrale” di Jack DeJohnette, ma bisogna immaginare un JDJ traslato nell’era della musica elettronica, di cui mima la percussione secca, e l’ampio uso di backbeat – già solo questo dà un taglio del tutto moderno al disco. Rispetto al passato, stavolta le influenze funk, rock e hip hop sono quasi subliminali, spesso nella forma di ostinati di piano e chitarra che artigliano i nervi come tanti piccoli uncini. KKPD apre il disco con un corposo riff di chitarra su cui Scott entra in sordina, per poi passare ad un esplosivo suono aperto che incendia l’atmosfera; il gruppo lo segue compatto nel progressivo aumentare di energia e aggressività. Stevens e Fletcher interagiscono così bene fra di loro, oltre che col leader, che il loro dialogo pare un brano nel brano. Segue The Eraser dell’odioso Thom Yorke. Ecco, in mano a christian Scott il brano realizza il suo potenziale, diventa davvero notturno e melodico, veloce nel ritmo, rilassante in apparenza ma pervaso da un’indefinibile tensione sottocutanea. Due i lenti, Isadora e The Last Broken Heart, illuminate e originali rivistazioni dell’approccio Davis/Dorham alla ballad. Attimi di tranquillità relativa, pervasi come sono da un senso di rassegnazione e spossatezza. Il resto dell’album esibisce brani estremamente dinamici e belli, attraversati dal solito clima negativo e oscuro, con la fenomenale sezione ritmica che si contrae e si dilata in risposta alle esplorazioni dei solisti, una chitarra ora acida e hendrixiana ora gentile e lirica, e un leader impressionante per sicurezza e inventiva. Nel 2010 il Christian trombettista pare ancora più bravo di prima: il suo stile “sordina con soffio” è ancora più astratto e lieve, mentre quando è necessario spingere e attaccare alla gola appare ancora più sicuro, esibendo un fraseggio limpido e potente. Se voleste declinare il blues attraverso il jazz alla luce della musica e degli umori del 2010, Yesterday You Said Tomorrow è la risposta.

L’avvenire, per questo talento, pare radioso. Attendiamo gli sviluppi, ottimisti sul futuro della musica se c’è gente che, ancora così giovane, è già riuscita a fare quattro dischi di tale levatura e a finire sulla copertina di Downbeat – che sarà quel che sarà, ma è pur sempre la più antica e autorevole rivista jazz mondiale. Concludo con un pezzo d’intervista che mi trova d’accordo su tutta la linea:

“I’ve had the experience of being around a lot of older musicians. I learned all these different styles and all the old guys said ‘amen to what you’re doing, if you have a vision.’ So I’ve never bought into ‘this is what it is, and if it’s not that, then it’s wrong,’ because most of the older musicians don’t feel like that, they just create. I’m not buying into trying to please people, worrying they won’t like my music.”
(Negrodeath)

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