FREE FALL JAZZ

A mio modo di vedere, Russell Gunn è uno dei musicisti contemporanei più interessanti, ed è un peccato che riceva molta meno attenzione del dovuto. Non sto ora a individuare i perché e i percome, tanto non ci riuscirei. Preferisco piuttosto divulgare qualche informazione su questo grande e misconosciuto jazzista quarantenne, nella speranza che qualcuno magari si metta ad ascoltarlo, così poi gli compra i dischi, e così Russell stesso poi mi offre da bere quando lo incontro. Si diceva quarantenne: infatti nasce nel 1971 a East St. Louis, culla nientepopodimeno che di Miles Davis. Ora qualcuno potrebbe iniziare a tirare in ballo confronti fra i due, e rimarcare che Gunn è trombettista e ha frequentato lo stesso liceo di Davis come se fosse un qualche segno del destino. Bah, queste sono romanticherie del menga, e quindi al menga le lascio. Una delle particolarità di Russell Gunn è quella di esser nato come rapper e di essersi interessato al jazz solo alle scuole superiori, instradato da un cugino più grande che era già un valente trombettista. Ma diventare jazzista in formazioni locali e scolastiche non gli fa dimenticare il suo primo amore, l’hip hop. E sarà proprio il dualismo jazz/hip hop, una contraddizione solo ad un orecchio superficiale, a marchiare a fuoco tutta la carriera e l’estetica del nostro uomo.

Qualche testa a travaso potrebbe chiedersi “ma perché uno che fa jazz dovrebbe preoccuparsi dell’hip-hop che non è Vera Mvsica tradimento schifo che indecenza?” Per far questo è necessario fare un passo indietro e spiegare un paio di cose. Cerco di essere meno noioso possibile.

<infodump1: il continuum jazzistico>
Il jazz e la musica negramericana in generale sono musiche orali, nel senso che non si immobilizzano in un repertorio da eseguire attenendosi alle indicazioni di uno spartito, come nella musica classica europea: il vero senso di questa musica, anche nel caso sia scritta e annotata puntigliosamente, lo si può percepire solo dall’interazione fra le diverse personalità dei singoli musicisti coinvolti. Musicisti che porranno le proprie capacità al servizio del pezzo e del suono complessivo e contemporaneamente faranno risplendere la propria individuale sonorità. Quando un musicista, nel forgiare il proprio stile personale, elabora estetiche e tecniche nuove, queste poi diventano parte del continuum della musica negramericana. I musicisti successivi costruiranno il loro stile stabilendo il loro personale rapporto col continuum: cosa prendere, cosa lasciare, cosa modificare, cosa riesumare, in base al proprio gusto, ai propri obiettivi, alla propria sensibilità. Questo comporta due cose. La prima è appunto che ogni generazione successiva si trova ad attingere ad un continuum sempre più esteso; la seconda è che, appunto, il concetto di repertorio canonizzato non esiste. Se per es. un jazzista di oggi decide, col suo gruppo, di prendere in mano un pezzo del passato, non cerca di suonarlo nota per nota, riproducendone le sonorità e tutto quanto. Ne conserva la struttura armonica e/o la melodia di base, e poi lo investe con la propria personalità trasformandolo in qualcos’altro, in qualcosa di proprio.
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<infodump2: il continuum negramericano>
La musica negramericana, floridissima, si è diramata in tantissimi generi, che hanno passato l’ultimo secolo a ibridarsi e contaminarsi in maniera lasciva sbroc sbroc che a Blondet gli piglia la sincope. Accade così che un musicista di un qualsiasi genere dell’albero della musica negramericana guardi favorevolmente ai rami vicini e abbia un grandissimo senso di rispetto per le radici, sempre più profonde. Le opere di sintesi, nel corso degli anni, non sono mancate – opere che hanno tirato le somme del “dove siamo arrivati fino ad oggi”. In un certo senso una corrente jazzistica per eccellenza come l’hard bop (link 1, link 2) rispondeva esattamente a questa domanda, per lo meno nelle sue fasi iniziali (seconda metà degli anni ’50). Come altro definire un filone che prendeva le innovazioni apportate dalla stagione del bebop e le portava avanti con massicce dosi di passato (il gospel, il blues, la musica latina) e di presente (il rhythm’n'blues e il soul, che nascevano allora)? Chiaramente, via via che nuovi generi nascono, nascono pure nuove sintesi. L’interesse per Hendrix e per il funky (Sly Stone e James Brown) portò Miles Davis a quel lungo work in progress iniziato in Miles In The Sky (1968) e finito con Pangea (1975). Una fase di otto anni in cui, fra le altre cose, Davis prefigura i successivi quarant’anni di musica nera, compreso l’hip hop e la figura del produttore hip hop. Altri musicisti come Donald Byrd, Freddie Hubbard, Herbie Hancock, Woody Shaw o Cannonball Adderly, diedero una svolta simile alla propria carriera, a cavallo fra anni ’60 e ’70: inglobarono nel jazz i frutti della musica nera loro contemporanea per sintetizzare ibridi nuovi e stimolanti. Pure i radicali e militanti Albert Ayler e Archie Shepp dissero la loro a riguardo con album molto controversi, ma splendidi, come New Grass e Attica Blues.
</infodump2>

Alla luce degli infodump, alla luce della larghissima diffusione dell’hip hop a partire dagli anni ’80 (ok, era nato sul finire della decade precedente), cosa può fare un jazzista nato nel 1970 con spirito avventuroso, curiosità e talento? Esatto, tentare di gettare un ponte fra jazz e hip hop. Russell Gunn non è il primo a provarci, e per di più non è l’unica cosa che fa – parte come jazzista straight-ahead, mainstream, confrontandosi col continuum per dimostrare a sè stesso e agli altri di esserne in grado. Un’esigenza, questa, che trova spiegazione nelle recenti parole del contrabbassista Christian McBride. A chi gli chiedeva se non gli rompesse i coglioni di essere sempre etichettato come “young lion”, McBride ha risposto che quelli della sua generazione, cresciuti con funk, soul, r&b, hip hop e rock, dovevano imparare a confrontarsi col jazz e la sua storia, da lì la pubblicazione di dischi mainstream, o straightahead se preferite.

Passiamo ora alla discografia di Russell Gunn; per comodità, l’ho suddivisa in jazz straight-ahead, etnomusicologico e progetti episodici.

Straight-ahead jazz

     

La carriera solista di Russell Gunn comincia nel 1994 con Young Gunn, un album di moderno mainstream in cui il giovane trombettista mette subito in mostra le sue qualità: in breve, uno stile atletico e muscolare à la Lee Morgan (suo idolo e, per inciso, mio trombettista preferito) con una disinvoltura nel “suonare fuori” paragonabile al compianto Booker Little. Oltre ai muscoli, comunque Gunn dimostra anche tanto ingegno, tanto senso del blues, e una spiccata tendenza allo spiazzamento ritmico. Il materiale del quintetto (oltre a Gunn, il sax tenore di Sam Newsome, il piano dell’esperto John Hicks, il contrabbasso di Eric Revis e la dinamitarda batteria di Cecil Brookes III) spazia da brani originali a standard. I primi sono in linea con l’hard bop evoluto della Blue Note dei ’60, con l’aggiunta di un’aggressività e di un’urgenza tutte moderne; inoltre i temi elaborati dal leader risentono dell’influsso del mondo r&b contemporaneo, come testimoniano le dirompenti East St. Louis, The Beeach, Brownyn. Sugli standard Gunn si dimostra interprete di razza: una Pannonica trasformata in duetto piano-tromba di grande lirismo blues e una maestosa, autoritaria rilettura di Wade In The Water con una cascata liquida di note pianistiche esibiscono un talento già grande. L’uso intelligente di opportune dissonanze espande il normale suono di un quintetto, che in certi punti pare quasi una piccola orchestra, come riusciva a fare Booker Little appunto. The Concept è la vera anomalia del disco, vista la presenza di un rapper ospite… e sapete una cosa? Funziona! Gunn Fu esce nel 1997 e segna un ulteriore passo avanti. La formazione è estesa, visto che vi figurano il vibrafono (suonato dal grande Stefon Harris, oggi lanciatissimo e in maniera assai meritata) e su un paio di pezzi il flauto (Sherman Irby, pure sax contralto). La celebre Solar viene stravolta sovrapponendo i flussi ritmici contrastanti di piano e tromba; James Hurt suona con un crescendo d’intensità maniacale e conclude il proprio breve assolo con violenti cluster stile Cecil Taylor. John Wicks è un lento molto delicato, profumato di r&b, dove Russell parafrasa di continuo la melodia del tema utilizzando il minimo indispensabile di note, mentre pezzi come la title track, The Search o The Final Call crepitano dall’energia e dalla creatività profusa dai solisti, col sax scuro e profondo di Greg Tardy che contrasta benissimo la tromba vigorosa di Gunn. L’ambizioso Love Requiem del 1999 è una suite in nove parti sul tema dell’amore che finisce male. La formazione comprende quasi tutti i musicisti dell’album precedente, più Cindy Blackman alla batteria e Myron Walden al contralto; la musica segue un andamento narrativo, tratteggiando le varie fasi dell’innamoramento, dell’idillio, della rottura, del dolore e dell’accettazione finale secondo un moto che si fa via via più aspro, tumultuoso, duro e infine disteso e rassegnato. Le atmosfere liquide e inquiete delle composizioni di Booker Little si mescolano con le esplosioni improvvise tipiche di Charles Mingus in maniera naturale e compiuta. Nel 2000 esce Smokingunn, che vede in formazione la batteria di Terreon Gully (talmente energico che potrebbe quasi suonare coi Motörhead), il contrabbasso di Eric Revis, il fantastico piano di Marc Cary e il contralto abrasivo di Bruce Williams. Le coordinate sono più o meno le stesse di prima, solo con una maggior propensione avventurosa. Nella frenetica Amnesia la tromba, ad un certo punto, lascia perdere le note e si liquefa in una serie di gemiti, singhiozzi e sussulti, alla maniera di Lester Bowie, per poi riprendere forma verso la fine. Freedom Suite è una cavalcata entusiasmante costruita a partire da tre note dichiarate all’inizio; Yvette e El’s Kitchen sono splendidi lenti pieni di blues con un moderno gusto r&b nelle melodie e nell’arrangiamento; Groid e The Beeach (riproposta dall’album di esordio) sono numeri ad altissima velocità pieni di frasi complesse ma sempre ben enunciate e staccate, supportate da una sezione ritmica esplosiva – nella seconda in particolare Williams fa faville portando il contralto ai confini del rumore senza mai scivolare in quegli istrionismi demodè da freejazzista fuori tempo massimo. Clamorosa la rilettura di un classico della letteratura sassofonistica, Crescent di John Coltrane.

Etnomusicologia

La serie in quattro volumi Ethnomusicology (titolo molto meno ironico di quel che si possa pensare) getta il ponte fra i due distinti aspetti della formazione musicale di Russell Gunn, il mondo del jazz e quello della musica popolare nera con cui è cresciuto. Ci troviamo di fronte a formazioni estese dove composizione e improvvisazione jazz si uniscono in maniera indissolubile con ritmi funky, un dj, scansioni ritmiche hip hop, arrangiamenti r&b. Gli strumenti utilizzati sono sia acustici che elettrici: fiati, piano, tastiere, basso elettrico, contrabbasso, percussioni, chitarre elettriche, batteria, drum machine, turntable, campionatori. Partecipano molti dei musicisti che ho nominato sopra più qualche altro. E tutto suona naturale, autentico, vero, una sintesi che arriva dalla strada, incazzata, piena di street credibility. I quattro volumi della serie sono diverse tappe dell’esplorazione etnomusicologica di Gunn. Vol.1 (1999) è l’episodio più bruciante e aggressivo del lotto, ricco di funky e hip hop. Ci sono vari pezzi impressionanti come Shiva The Destroyer, che unisce ritmi techno e melodie indiane con tanto di botta e risposta fra la sezione dei fiati e lo scratch (!), gli ostinati martellanti dell’avventuosa Folkz, il blues elettrico e sensuale Sybil’s Blues, il funky suadente di Woody I: The New Ark (di Woody Shaw) e il travolgente tour the force The Blackwidow Blues, roba che avrebbe fatto la felicità di Art Blakey e Horace Silver per il ritmo e l’energia. Un lento r&b come Doll, infine, avrebbe potuto farsi sentire in classifica, in un mondo più giusto ed equo. Vol.2 (2001) prosegue il viaggio verso il futuro scovandolo nel passato: musica brasiliana (Dance Of The Concubine) e afrocubana (Del Rio), da sempre parte del patrimonio jazzistico, e standard come Epistrophy, Caravan e It Don’t Mean A Thing diventano ossatura di strepitosi pezzi funk/r&b/hip hop grazie ad un attento lavoro di ristrutturazione ritmica (vamp di piano, basso elastico, continue pulsazioni di chitarra, scratch) su cui i fiati si scambiano assoli di grande pregio; I Wish e Lyne’s Joint proseguono la serie dei lenti r&b dove la tromba di Gunn fa gli onori di casa. Vol.3 (2003) è l’album più melodico della serie, il più orientato verso hip hop e r&b che danno l’impronta principale agli arrangiamenti e alle sonorità. Evidentemente incavolato per le critiche rivoltegli, Gunn rappa in prima persona contro scassaminchia vari in due brani, No Separation e The Critic’s Song, entrambe caratterizzate da martellanti ritmi hip hop e brillanti assoli di tromba calati nel solito melange di tumultuosa musica all-black. Variations On A Conspiracy Theory è un r&b solenne e drammatico, con un tema molto bello e magnifici assoli di sax che lasciano spazio ad un Gunn laconico e dolente nella parte centrale; East St Louis rinasce in versione aggressiva, martellante, da dancefloor, carica di adrenalina e testosterone. Il finale vede una versione incredibile di Strange Fruit dove la voce di Billy Holiday campionata si sovrappone al tessuto strumentale sinistro e inquietante ordito dalla band, che sfocia poi nell’inno di rivolta Stranger Fruit, una marcia caotica scandita da una voce declamante e imperiosa che ricorda Abby Lincoln. Vol.4 (2004) infine è un episodio registrato dal vivo con una formazione ridotta a sei elementi (tromba con wah wah fisso, chitarra, basso, batteria, tastiere, dj). Questo live è un po’ una ricapitolazione del pensiero musicale di Gunn: jazz, soul, blues, rock, hip hop, acustico ed elettrico fanno tutti parte dello stesso continuum e sono portati a fondersi e incontrarsi. L’illuminante rilettura di Blue In Green, posta in apertura, è piuttosto esplicativa: parte quasi sottovoce, strisciando, e poi decolla su ritmi da technosamba, per concludere come era cominciata. Altro evergreen, altra trattamento originale per la sempiterna Summertime, introdotta dalla band con tre minuti buoni di improvvisazioni su una vamp di tastiera, prima che entri la tromba e il pezzo assuma colori quasi orientaleggianti su ritmi ai confini della jungle – da notare il bell’assolo di piano al centro. More Sybil’s Blues e Lyle’s Joint sono dei blues molto espressivi e taglienti dove la chitarra di Carl Burnett riveste un ruolo determinante. Il gran finale coincide con l’inizio di questa avventura: Shiva The Destroyer in una versione mostro di sedici minuti che manda il pubblico fuori di testa! Quattro dischi da incorniciare per visione, coraggio e intelligenza.

Krunk Jazz (2006), quinto capitolo della serie, pubblicato solo in formato digitale, ancora non l’ho sentito se non attraverso pochi clip online. L’indirizzo sembra abbastanza in linea con quello dei primi due volumi di Ethnomusicology, con poliritmie molto accentuale e una forte commistione di hip hop e afrocubanesimo, ma con questi pochi elementi posso dire ben poco. Love Stories (2008) è un album dove la commistione fra jazz, r&b e hip hop si focalizza su brani medio-lenti, in un’ambientazione sonora lussureggiante e sontuosa dominata da una frontline assortita splendidamente (oltre a Gunn, il tenore vellutato dell’esperto Kirk Whalum e il contralto tagliente e spericolato dell’astro nascente Brian Hogans) che duella e suona in sezione su un tappeto multiforme e ricercatissimo di piano, tastiere, percussioni e ritmi hip hop. Il tema del disco, come si può capire, è “l’amore in tutte le sue forme”, ma non per questo si tratta di un lavoro banale o sdolcinato. Si passa da una nuova versione di Love Requiem, irriconoscibile se non per la melodia e la rabbia del tema, al soul rilassante di All You Need Is Love, alle atmosfere da thriller della sinistra The Stalker Song, per finire con i toni quasi epici di Gandhi’s Love e una Love For Sale trasformata in un moderno r&b molto ritmato, ma con un’interpretazione vocale prettamente jazz a cura della brava Heidi Martin. Tanto negli assoli quanto nei momenti di insieme il lavoro svolto è di ottimo livello e dà vita ad un suono molto originale – provare per credere! Ethnomusicology vol.6 – The Return Of Gunn Fu esce nel 2009 e si tratta dell’espisodio meno riuscito della serie. A partire da un suono troppo freddo e da un beat statico, l’album sembra tirato un po’ via: a fronte di temi notevoli, come quello di ‘Return Of Gunn Fu’ (una specie di ‘Such Sweet Thunder’ hip hop) o di ‘Gregroidian Chant’, fortemente percussivo e africaneggiante, mancano sviluppi degni di questo nome. La presenza di numerose e superflue intro non aiuta di certo, anzi. In sintesi, una riedizione poco ispirata del terzo capitolo della serie.

I progetti episodici

   

Questi tre album sarebbero potuti rientrare, quasi senza colpo ferire, nel capitolo straight-ahead, ma ho preferito separarli perché ognuno di essi è dedicato ad un tema particolare. Blue On The D.L. (2002) è un disco che si focalizza sul blues. Russell Gunn è un superbo interprete di blues, come ha fatto notare già in lungo e in largo, quindi perché non farci un lp intero? Detto fatto, eccolo qui. Un eccellente quintetto che comprende ,oltre alla tromba, guitarra, basso, piano e batteria (e il sax dell’ottimo JD Allen su JD’s Revenge) si lancia in una serie di blues presi dai repertori di Blue Mitchell, Clifford Brown, Charlie Parker, Wynton Kelly, Miles Davis, fino ad arrivare al più recente Roy Hargrove. Il suono del gruppo, così asciutto, essenziale, fa davvero respirare l’essenza stessa del blues, anche grazie ad un contrabbasso bene in evidenza e al piano molto percussivo di Orrin Evans, qui molto vicino a McCoy Tyner, Sonny Clark e Wynton Kelly. Il Miles Davis di Walkin’, Blue Haze e Live In Person At The Blackhawk, oppure i complessi di fratelli Adderley degli anni ’50 e ’60, non sono affatto lontani. Affiatatissimi e compatti, Gunn e i suoi riattualizzano con naturalezza il vecchio spirito della jam session su temi blues, siano essi Sir John o Cheryl o No Blues, a dimostrazione del fatto che certe cose non sono necessariamente morte nel nuovo millennio, basta trovare qualcuno bravo abbastanza da mantenerle vive e credibili. Mood Swings (2003) sembrerebbe spostare l’obiettivo sul soul jazz, vista la formazione (tromba, organo, chitarra, batteria). In realtà la scelta degli strumenti è funzionale alla creazione di un suono caldo e avvolgente dove chitarra e organo fanno da ambientazione agli entusiasmanti dialoghi fra tromba e batteria. In programma pezzi non particolarmente conosciuti di Horace Silver, Donald Byrd, Lee Morgan, qualche standard e qualche brano originale. Da un lato ci sono brani incendiari (Injuns, S. Crib, Blues To Lee) dove Gunn dà sfogo al suo lato più hard e pirotecnico, senza perdere mai il controllo. Dall’altro lato, pezzi come Park Avenue Petite, Night And Day, la title track e un’originale rilettura di African Queen (batteria, chitarra e organo suggeriscono ritmi africaneggianti in modo quasi subliminale) permettono a Gunn di esplorare il lato più intimo e gentile della tromba, avvicinandosi a Miles Davis e Art Farmer. Russell Gunn Plays Miles (2007) è un album dedicato ovviamente a Davis, ed è un tributo di grande intelligenza. Una formazione elettrica (tromba, basso, chitarra, batteria, percussioni) affronta brani tratti da diversi periodi dell’epopea davisiana, virandoli in chiave moderna e rock/funk/hip hop nel ritmo e nel suono, e allo stesso tempo rispettando l’essenza del maestro. Gunn suona in modo completamente diverso da Davis, da però cui stavolta mutua il gusto per le frasi estremamente melodiche dove note e pause hanno lo stesso peso. L’interro gruppo suona arioso, come se i gruppi di Davis degli anni ’50 e ’60 fossero nati nell’era del rock e dell’hip hop. E’ incredibile sentire un pezzo ignobile come Tutu, dal merdoso disco omonimo, spogliato di tutti gli orpelli produttivi e trasformato finalmente in un gran brano. Una versione condensata, in nove minuti, di Bitches Brew vede Gunn alla prese col wah wah. Altri momenti di grande interesse sono Blue In Green che diventa un’ipnotica jam r&b, una Footprints brasilianoide e una Eighty One super funky (ci vedrei bene Bootsy Collins e George Clinton).

Ok, siamo arrivati alla fine. Che la carriera di Russell possa proseguire ancora a lungo, sperando pure che si riprenda dallo scivolone dell’ultimo album. E che magari venga a suonare da noi…
(Negrodeath)

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