FREE FALL JAZZ

Per chi scrive Kenny Garrett è sempre stato una sorta di grande incompiuto. Sassofonista di doti tecniche indiscutibili e grande riconoscibilità, compositore interessante e dotato di eccellenti intuizioni melodiche, non è forse mai riuscito come leader a fare il suo disco definitivo, complice una certa esecrabile tendenza allo smooth jazz e ad esangui contaminazioni world un po’ facilone. ‘Seeds From The Underground’, secondo album per Mack Avenue a quattro anni dall’incandescente live a tutto funk ‘Sketches Of MD’, ci mostra un Kenny a pieni giri alle prese col suo robustissimo post-bop. La formazione è molto affiatata: su tutti spicca l’eccellente piano di Benito Gonzalez che riecheggia molto McCoy Tyner e Danilo Perez, mentre il percussionista Rudy Bird dà una bella connotazione latineggiante a gran parte dei brani. Detto questo, detto della performance di gruppo, ovviamente stellare, occorre pure dire che non tutto è perfetto, purtroppo. Abbiamo autentiche palle di cannone come ‘Boogety Boogety’ e ‘J.Mac’, travolgenti eruzioni post-bop dove lo stile proprio di Garrett emerge in forma smagliante: melodie fresche ed ispirate, assoli acrobatici dallo sviluppo sempre imprevedibile ed originale, un vigore ritmico inarrestabile. Molto bella pure la title track, altro numero latin a tempo medio con melodie ariose e gradevolissime, così come il saltellante blues ‘Du-Wo-Mo’ che prende le mosse dal classico sound di Horace Silver – si mette in mostra, e con merito, il bell’accompagnamento dai colori latini di Gonzalez. A fianco di questi brani riuscitissimi ce ne sono altri che fanno calare l’attenzione e l’energia, e corrispondono alle solite tentazioni “world”, smooth e spirituali che tanto avevano fiaccato il precedente album da studio ‘Beyond The Wall’. Stavolta in salsa afro-cuban anziché orientale, e in numero non così elevato da rovinare l’intero lp, ma il succo è lo stesso: oleografie cartolinesche e un po’ superficiali, come ‘Welcome Earth Song’, stereotipata nel tema e ingessata da un canto fermo di sapore africano che fa molto mercatino esotico, la spenta ballad ‘Detroit’ che rievoca in maniera piuttosto artificiosa atmosfere hard boiled anni ’50, e la delicata, delicatissima, pure troppo ‘Ballad Jarrett’, affidata essenzialmente a soprano e pianoforte, all’insegna di uno stucchevole romanticismo di maniera.

‘Seeds From The Underground’ conferma pregi e difetti del bravissimo sassofonista. Personalmente, lo vorrei vedere libero da cadute nei territori world e smooth-spirituali presi in stock, in favore di quel vocabolario post-bop che sa maneggiare tanto bene. Fermo restando che si tratta sempre di un bell’accontentarsi, resta un po’ di amaro in bocca.
(Negrodeath)

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