FREE FALL JAZZ

Dato che per la vastità della materia non basterebbero un numero di vite multiplo di tre a poterne parlare non dico compiutamente ma almeno in modo esaustivo (detto con voce à la Biscardi che in una celebrazione–non celebrazione ci sta sempre bene, appunto perché non c’entra nulla e non è un professorone –espertone –addettone ai lavoroni), mi appello all’articolo 1 comma 1 del codice del Buttalemaniavantismo per far la premessa, bella, simpatica e prolissa, che ne parlerò in modo discontinuo, cazzeggiante e confuso, come è giusto che sia.

Come unico omaggio alla compiutezza, una specie di schema.

Io e Miles a)  La scopertona: la scopertona è infantile o poco più, per meriti non acquisiti sul campo ma per comodo tirare fuori da collezioni familiari. Il bello è che  poi tutto evolve, cambia e si trasforma e vivere un fenomeno come Miles durante la sua stessa vita (almeno per una parte, giusto quei 18 anni circa dalla scopertona alla sua dipartita) attraverso fasi di avidità feroce, poi stasi e distrazione, parziale rifiuto, ri-scopertona, autonoma scelta, rimpianti, rimorsi, varie ed eventuali (che pure ci stanno sempre bene), in una fetta importante di esistenza, ti fa poi essere un tantino meno legata al Miles Fenomeno, quello celebrato, un po’ scontato, classicone, immutabile, proprio come lui NON È STATO.
Seguirlo crescendo mi è servito a non essere immutabile nello stesso gradimento verso di lui, a non diventare una fan cariatide ma una “appassionata scombinata”, liberandomi dalla ortodossia degli “ascolti irrinunciabili”, con quel pizzico di snobismo scemo gnè gnè gnè, quello, per intenderci, del: “chi non lo tiene scagli il primo vinile”.
Tutto ciò con una differenza fondamentale con lo snobismo professorone dell’espertone-classicone: a me funziona al contrario. Appena vedevo che, dall’espertone addetto di turno, qualcosa di Miles  veniva buttato nella indifferenziata con tanto di occhio vitreo e mignolino sollevato davanti alla tazza di thé verde uzbeko, io, alzando un altro dito al professorismo, mi dicevo: “io, questo disco, me lo vorrei…  mumble,.. interrogare” (paracit. Miseria E Nobiltà) e via, senza gli interi prosciutti sugli occhi e i cotechini sulle orecchie, stavo a sentire. Sì,  stavo a sentire lui, non l’espertone. Che pare una banalità, ma il punto è proprio questo:  bisogna che si stia a sentire Miles. Non è che poi tutto l’oro colato che luccica mena il can per l’aia e riesce col buco (fusion di proverbi), ma almeno si conserva la lucidità necessaria non certo per disconoscere ciò che nella sterminata produzione davisiana sia assurto a simbolo, ad emblema, a “Classico”, ma almeno per rivolgere le proprie orecchie (che non si saturano, c’è tanto spazio dentro, oh) a rivoli, canali e affluenti un po’meno battuti del Tamigi o dell’Hudson o del Gange o di quel che si preferisce come metafora.

Io e Miles b) gli affluenti poco navigati: Part I
Scegliere sembra difficile, ma neppure tanto, dato che molto Miles è stato parecchio bistrattato, già partendo dalla fase fusion-elettrica (che poi, dato che molti criticoni di professione l’hanno abbastanza rivalutata, è tornata in auge e ascoltata con tanto di occhioni sgranati e gridolini), per non parlare dell’ultima fase dal 1980-81 in poi, dopo la Grande Depressione, la ripresa parziale di una salute parecchio compromessa, quando le sue sperimentazioni-curiosità-conoscenze-frequentazioni di musicisti poco noti (o poco contattati precedentemente) lo hanno traghettato verso “altro”. La fase che arriva fino a lambire (sigh) la sua dipartita il 28 settembre del ’91, quel decennio lì tormentoso, beh diciamo che tutta la sua produzione di quel periodo credo abbia il record massimo di Disconoscimento & Sottovalutazione. Prendo a caso l’album ‘Decoy’ del 1984 (registrato nel 1983), nel pieno del periodo osteggiato da fan tradizionalisti, fermi allo zoccolo duro di “seconda metà anni ’50 – barlumi ‘60”  (capolavori, ci mancherebbe,  ma ormai presenti in collezioni casalinghe più mainstream accompagnate da aperitivi con l’oliva e  mai “senza giacca e cravatta” – cit.). Beh, ‘Decoy’ vanta un sassofonista come Bill Evans che ha praticamente esordito con Miles qualche anno prima, suoni sintetizzati che fioccano come nespole (Robert Irving III),  l’altro sax soprano  Branford Marsalis che non è esattamente la mia tazza di thè, ma che gli vuoi dire, armoniosamente partecipe e ugualmente dicasi per la chitarra elettrica di Scofield, altro musicista che non sempre mi entusiasma (anzi, ben poco), ma qui in stato di grazia profuso e diffuso da Miles, in strepitosa simbiosi col bassista Darryl Jones e ultimo ma non ultimo, il batterista Al Foster, col merito non facile di tenersi saldo il suo posto ritmico in una serie di sonorità dove il funk farebbe anche la parte del leone, pur concedendo parecchie aperture elettrico-fusion di grande qualità. Una serie di pezzi anche parecchio diversi tra loro, ma tutti da riscoprire (forse la title-track il più rappresentativo, ma non è detto).

Io e Miles b) gli affluenti poco navigati: Part II
Nella scia del Miss Sconosciuto, si colloca pure l’album ‘Aura’, che è del 1985 (ma pubblicato solo quattro anni dopo) e rappresenta una novità ancor più da tenere a mente. Una sorta di concept-cromatico album (10 note, 10 colori, 10 suites, 10 lettere che compongono nome e cognome di Miles), su composizioni di un pallido e nordico autore danese, Palle Mikkelborg; suoni dove si ritrovano influenze classicheggianti; mi sa che più di un naso ortodossone si arriccerebbe, pensando che è stato registrato con la BIG BAND della radio danese (e invece…).
Una serie di musicisti importantissimi accompagna Miles in questa impresa: dal mio amato John McLaughlin (in  forma smagliante, già solo i 4 minuti del pezzo ‘Intro’ valgono tutto, in un ipnotico crescendo-sintetizzando-Genio-eticamente modificando), e come non citare il basso di Niels Henning Oersted Pedersen, musicista dalla discografia chilometrica e zeppa di eccellenze. Un susseguirsi di pezzi dove la commistione di generi tende ad essere una specie di mosaico pompeiano dove, miracolosamente, ogni pezzo va al suo posto (non si ha il tempo di annoiarsi per qualche sperimentazione o suono glaciale di troppo, perché poi quelli lasciano il posto a tutt’altro). Insomma una sorta di tributo-regalo, summa, omaggio schivo a tutta la classe e la grandezza di Miles Davis, alle sue ricerche, curiosità, introspezioni, mutamenti di rotta e di umore, e col comune denominatore di una profonda bellezza emozionante e mai stucchevole. Un regalo dove il festeggiato-omaggiato è esso stesso partecipe al confezionamento, e quindi il risultato è veramente inaspettato e geniale. Ritenendo sia uno degli album meno ascoltati di Miles, mi pare proprio cosa buona e giusta trovarlo e ascoltarlo in occasione del suo ottantaseiesimo compleanno(!).

Io e Miles c) L’anagrafe is on my side
Breve capitolo della serie “gnè gnè gnè io c’ero” (che poi magari riuscirò ad approfondire in un prossimo post con maggiore calma). Di quando cioè l’anagrafe non rema contro con dispettosi segni ma restituendo più o meno intatta una memoria-ricordo buffoncella di cose vissute ed ascoltate. Non tanto per relazionare sulla propria presenza in circostanze fortuite, fortunate e praticamente irripetibili, ma per compiere una sorta di Servizio Sociale, una specie di Pubblicità Progresso,  ovvero: SMS “Sfatare Miti Sfiatati”, tipo quello che Miles era antipatico, odioso, rissoso, maleducato, che se ne fregava del pubblico, che gli dava le spalle, che snobbava tutti, che non rispettava nessuno, ma che voleva ordine rispetto ed educazione da tutti (beh diciamo che lo era, ma sovente queste note caratteriali rimbalzano così tanto quando non si ha molto altro da dire su qualcuno che poi sembrano dominanti e viste solo in una accezione negativa). Ecco, ci siamo, è arrivato il momento della frase: ”mica era sempre così”.
Cito le mie due fortunate presenze, la prima ad Umbria Jazz a Luglio del 1984, dove nonostante la folla, il mio quasi infarto per l’evento, la fatica per arrivarci, ero così in stato di grazia che ho visto -sentito un Miles (e non dava le spalle! C’era! Ci guardava!) presente, non snobbone, partecipe, insomma contento di essere lì (ora qualcuno potrebbe obiettare che il mio stato di grazia mi predispone e condiziona favorevolmente, ma non intendo cadere nelle provocazioni, sgrunt). E poi stava benissimo, con un manipolo di eroi (Foster, Scofield di cui sopra) e il da me adorato Bob Berg ( una  performance breve, purtroppo). Quindi, nel caso Miles possa stare “in ascolto”, “oh, io ho fatto la mia parte, l’ho detto che non sei sempre stato intrattabile”.

Io e Miles c) L’anagrafe is on my side: Part II
Altro capitolo del “gnè gnè gnè”: è l’anno 1991 (e siamo giunti alla fine dei giochi, sob), dove in un altro luglio indimenticabile, stavolta quello di Montreux, Miles e Quincy Jones danno vita ad un evento (a dir la verità visto piuttosto da lontano e in una posizione un po’ infelice,  ma c’ero, ecco) da non dimenticare mai più. Un concerto con gli arrangiamenti meravigliosi di Gil Evans. Come dimenticare l’attacco di ‘Gone Gone Gone’ che aveva già un remoto sapore di addii e mancanze e poi l’improvviso virare di una ‘Summertime’ di gioia collettiva? (Anche se forse il mio momento preferito è durante ‘Miles Ahead’ nell’emozionante duettare con Garrett, che precede una ‘Blues For Pablo’ commovente). Ma ‘Summertime’ (suonata in tutte le salse poi viene a noia, altrove) ha il merito di essere un preludio di lusso al trio finale dove le lacrime scorrono copiose in mezzo agli applausi fragorosi (avemmo forse tutti l’esatta ed oscura percezione che si trattava di un commiato definitivo), ‘Here Come De Honey Man’, ‘The Pan Piper’ e il crescendo infinito di ‘Solea’ suggellano una serata che definir indimenticabile è riduttivo e minimalista e carveriano.
Buon compleanno, Miles.

(Dinahrose)

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