FREE FALL JAZZ

Dopo la recensione dell’ottimo ‘Ohmlaut’ è tempo di intervistarne l’autore, il sassofonista a tratti rocker molto probabilmente videogiocatore e di sicuro casinista Piero Bittolo Bon. Fra le tante domande, gli risparmiamo quella sul nome della sua band, Jümp The Shark: è un termine che indica il declino di una serie tv, nato durante gli ultimi rantoli di ‘Happy Days’ quando Fonzie fa sci d’acqua e salta uno squalo. Scaramanzia? Passione per le serie tv americane? Un misto di entrambi, più probabilmente. La cosa più importante è piantarla con questa introduzione e lasciar parlare Piero, uno degli esponenti più interessanti di quel jazz nostrano lontano da enoteche, agriturismi e degustazioni.

Partiamo dalla presentazione di rito. Chi sei e come lo sei diventato?
Ehilà. Sono principalmente un sassofonista di jazz, o di quel che ne è rimasto. Lo sono diventato più che altro a causa della mia atavica pigrizia e della mio abbastanza disastroso cursus studiorum. Diciamo che ad un certo punto ho capito che procura molti meno danni alla società essere un musicista mediocre piuttosto che un pessimo architetto.

Cosa ti ha folgorato spingendoti sulla via del jazz?
La spinta principale me la diede mia mamma, comprandomi il mio primo sassofono a 14 anni (strumento che scelsi piuttosto casualmente), col quale cominciai a suonare nei gruppi del liceo. Non ero del tutto convinto del mio ruolo devo dire, anche perchè il repertorio di quei gruppi spaziava tra i Cure e gli U2… L’ascolto di alcune audiocassette giratemi dall’allora ragazzo della mia sorella maggiore, che suonava il sassofono pure lui (grazie Fabio!) mi diede il primo imprinting jazzistico: ‘Kind Of Blue’, Chet Baker e soprattuto delle straordinarie incisioni di Massimo Urbani che mi facevano letteralmente girare la testa.

Quali sassofonisti citeresti come fonti di ispirazione n.1?
Sono stato un avido consumatore di Cannonball, McLean, Urbani appunto, Ornette, chiaramente anche Parker, ma forse in misura minore. Tra i tenoristi non posso non citare Joe Henderson, del quale sound mi innamorai perdutamente, tanto che ad un certo punto mi comprai un tenore… In seguito ho cominciato ad addentrarmi in territori più impervi: Steve Coleman, Tim Berne, Henry Threadgill vanno sicuramente annoverati tra gli altisti che in maniera maggiore hanno contribuito a plasmare la mia idea di suono.

E quali musicisti?
Senza ri-citare i signori di cui sopra, sicuramente tutta la produzione di Miles Davis ha avuto un forte impatto sul mio modo di percepire ed affrontare la musica. Ho avuto inoltre la fortuna di partecipare nel 2005 ad un workshop tenuto da Anthony Braxton, Muhal Richard Abrams e Roscoe Mitchell: ecco, quella fu un’occasione decisamente epifanica, per cui ringrazio ancora oggi il mio amico e collega Beppe Scardino che mi convinse a partire con lui alla volta della Sardegna. Considerando che in quel periodo la mia attività musicale principale era suonare il basso elettrico vestito da Hurricane Polimar ne “La Mente di Tetsuya”, una fantastica cover-band di sigle di cartoni animati giapponesi (e senza a ciò nulla togliere perchè mi divertivo come uno scemo), diciamo che la cosa mi ha dato una bella sferzata.

Come hai assemblato la tua band?
Jümp The Shark, gruppo di cui vado fierissimo, nasce come quintetto. Mi piaceva l’idea di esplorare una formazione con due strumenti armonici ma senza usarli veramente come tali, e in più avevo in testa un sound piuttosto “acido”. Ho quindi voluto coinvolgere quindi amici con il quale avevo già suonato in altre situazioni e dei quali conoscevo bene le caratteristiche musicali, e non solo… Domenico Caliri oltre ad essere un chitarrista strepitoso è un compositore ed improvvisatore maiuscolo, al quale devo davvero molto. Con Pasquale Mirra, vibrafonista inarrivabile, avevo avuto modo di collaborare in precedenza con il sestetto Orange Room di Beppe Scardino, dal quale ho prelevato senza tanti complimenti anche il grande Federico Scettri. Con Danilo Gallo, bassista che non necessita di presentazioni, suonavo già nel quintetto Rollerball, senza contare tante altre collaborazioni e la militanza nello stesso collettivo. Dopo la registrazione del primo album ho cercato un modo per bilanciare un po’ meglio il sound del gruppo, e Gerhard Gschloessl è stato il primo musicista che mi è saltato in testa: è fantastico sia al trombone che al sousaphone, ed inoltre il suo mood berlinese contrasta in maniera perfetta con le atmosfere un po’ glaciali che vengono fuori dalla mia penna. La scelta degli elementi insomma è stata piuttosto facile…

In molti brani la ritmica si fa molto potente e diretta, spesso ai confini del metal o dell’hardcore punk. Che peso hanno avuto questi generi musicali nella tua formazione?
Uno dei miei primi amori musicali sono stati gli Iron Maiden, ed ho militato come bassista in una formazione hard-rock/primusseggiante. Sicuramente, e ne sono felice, qualche strascico me lo porto ancora dietro!

Quanto sei cresciuto nell’intervallo fra ‘…Gattai!’ e ‘Ohmlaut’?
Mi sono misurato, a distanza di due anni sono sempre 1,70.

Mi pare che, via via, tu stia aggiungendo nuovi strumenti al tuo arsenale, come flauto e clarinetto. Cosa ti spinge in questo tipo di ricerca?
Mah, ricerca non direi, chiamiamola pure noia! Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di avere qualche voce in più da mettere in campo. Non vedo di buon occhio il multisassofonismo (anche se di tanto in tanto mi do al baritono), penso sia più stimolante avere a che fare con degli strumenti diversi, oltre che nel timbro, sia come impostazione che come diteggiatura, in modo da non riportare semplicemente in un altro registro quello che so fare sull’alto.

La tua musica è in linea con molto jazz contemporaneo nel cercare il perfetto equilibrio fra scritto e improvvisato. Come ragioni, quando ti metti a comporre?
Ad un certo punto ho avuto la più che normale esigenza di scrivere della musica che andasse un po’ oltre alla forma “tema-solo-tema”, al che ho cominciato a buttare giù delle idee e pian piano, in maniera assolutamente empirica, ho trovato la mia vena. Probabilmente il mio “modus componendi” deriva dalla mia più che scarsa conoscenza dell’armonia, infatti mi sono rassegnato al fatto che miei brani alla fine si basano quasi esclusivamente sullo sviluppo di linee più o meno melodiche e contrappunti e sulla ritmica in generale. Nel songbook di JTS c’è un solo pezzo con un giro armonico “alla vecchia”! Chiaramente l’obiettivo è quello di arrivare ad una sintesi davvero personale della musica che ho ascoltato e suonato finora.

Da dove viene la tua evidente (e da me apprezzatissima) vena, diciamo così, assurdista? La scrittura per blocchi ed episodi contrastanti è tipica di certo “assurdismo in musica”, da Carl Stalling a Zappa ai Primus passando per David Murray, ma di fondo esiste pure nell’apparentemente più signorile Ellington…
Grazie per l’apprezzamento! Penso sia una questione che ha molto a che fare con il carattere e con una certa affinità con tutto ciò che possiamo, a gran martellate, inserire nel contenitore del “surreale”, dai Monty Python a David Lynch ai videogiochi di Jeff Minter, per farsi un’idea.

Nella recensione ho citato Zappa oltre a nomi più consueti come Coleman e Threadgill. E’ mia impressione che Zappa abbia lasciato un segno tutto sommato marginale nel rock, mentre uno ben più profondo nel jazz. Visto che pratichi pure il rock, che ne pensi?
Molto semplicisticamente possiamo dire che cercare di mettere assieme la torrenziale vena musicale e la analisi sociale spietata che poteva mettere in campo FZ con l’attitudine del gruppo rock medio del 2012 è un’impresa assai sconfortante… Sicuramente al jazzista medio odierno, che ha raccolto anche un po’ la pesante eredità del rock progressivo, suonare in 27/11 e leggere litri di inchiostro di semibiscrome riesce piuttosto facile, quindi è chiaro che Zappa al giorno d’oggi venga più facilmente assimilato da chi ha masticato Parker piuttosto da chi si è sparato gran Deep Purple. Certo che se poi il brano si intitola “Tramonti” o “Blueseggiando” stiamo messi male.

Come vedi la situazione del jazz in Italia?
Malissimo, soprattutto per il fatto che in Italia sono jazz Lino Patruno, Bollani, la musica che faccio io e pure Elton John. Ti lascio immaginare chi può avere la peggio.

Differenze con l’estero?
Tantissime. Soldi, locali, cultura, onestà intellettuale, pubblico giovanissimo, entusiasmo, attitudine al rischio.

E il pubblico?
Fino a poco tempo fa totalmente disastroso, ora c’è da dire che sto notando un certo ricambio generazionale, e si vedono addirittura dei giovani musicisti andare ai concerti…

Fai parte del collettivo El Gallo Rojo, una sorta di “collettivo discografico”. Come valuti questa esperienza? Consiglieresti ad altri musicisti di organizzarsi in collettivi simili?
Per me è stata ed è tutt’ora un’esperienza fondamentale. A parte il fatto che ho avuto modo di conoscere e di collaborare con amici e musicisti di prim’ordine, siamo riusciti a costruire una realtà di cui siamo tutti parecchio orgogliosi, e che è riuscita a farsi valere con le sue produzioni nel mare magnum delle centinaia di dischi che escono in Italia noi anno. Sicuramente una prova lampante del fatto che l’unione fa la forza, e che esperienza del genere, unite a nuove forme di autoproduzione come quella del crowdfunding, dovrebbero cominciare ad essere considerate anche per l’organizzazione di festival e rassegne, bypassando finalmente l’oscena burocrazia italica.

Un paio di anni fa fece il giro del web questa ordinanza veneziana che sembrava uscire dal dritta dal ventennio. Da jazzista veneziano, che hai pensato?
Hehehe… questo è un famoso reperto di folklore urbano, fa capire in che stato verte la situazione culturale della mia città. Chiaramente non è mai stata applicata, te lo vedi il vigile urbano che ti fa la contravvenzione perché hai suonato troppi tritoni? Fatto sta che si trattava di una legge, e che è rimasta in vigore per più di 10 anni. Ho colto la palla al balzo fotografandone un esemplare affisso alla vetrina di uno dei pochi locali di musica dal vivo a Venezia, e diffondendolo su Facebook. E’ scoppiato un casino, articoli indignati su Repubblica e Manifesto, l’assessorato alla Cultura bombardato da decine di telefonate da tutta Italia. Chiaramente l’ordinanza è stata ritirata. Risultati pratici zero, soddisfazione per lo sputtanamento 10000.

Infine, siccome abbiamo la stessa età e presumibilmente gli stessi riferimenti culturali, una domanda a bruciapelo: Samantha Fox o Sabrina Salerno? E perché?
Samantha Fox.

Il jazz è…
Un modo estremamente creativo e faticoso per guadagnare davvero poco.

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