FREE FALL JAZZ

Quest’articolo avrebbe potuto uscire anche per la rubrica Filthy McNasty a titolo ‘Pròxima Estaciòn Esperanza’, ma a quel punto mi sarebbe toccato, a ragione, un lungo quarto d’ora di penitenza in ginocchio sui porcospini per aver iniziato il pezzo citando Manu Chao. Avrete già intuito che la metaforica stazione può essere una tra le tante che trasmetteranno i pezzi di ‘Radio Music Society’, nuovo album della bassista e cantante americana Esperanza Spalding, il quale, a neanche due settimane dall’uscita è già un caso diplomatico. Pomo della discordia è la sua categorizzazione, visto che in America viene “venduto” come contemporary jazz, etichetta peraltro talmente omnicomprensiva da aver smarrito qualunque barlume di significato.

In realtà, più che la categorizzazione in se, a far discutere è l’“imbastardimento“ che, album dopo album (siamo ormai al quarto), ha portato la musica della Spalding verso derive senz’altro meno conservatrici.  Il precedente ‘Chamber Music Society’ destò meno clamore: giocava (con risultati alterni, va detto) ad unire jazz e strumenti tipici della musica classica, cosa tutto sommato “tollerata” nell’ambiente. ‘Radio Music…’ invece tenta una sterzata più brusca, ammiccando sin dal titolo al mercato mainstream. La musica ovviamente tiene fede al principio, ruotando soprattutto attorno a influenze funk, neo-soul e R&B, in scia a certe cose di Erykah Badu, volendo dare qualche coordinata; di jazz resta ben poco, a parte qualche sfumatura negli arrangiamenti (d’altronde c’è da registrare il contributo di ottimi musicisti come Jack DeJohnnette e Terri Lyne Carrington, tra gli altri). Non ci stupiremmo, in sostanza, se qualche geniaccio dell’ultim’ora provasse a “vendere il pacchetto” agli orfani di Amy Winehouse o chi per lei.

Il problema comunque non sta affatto nell’intenzione (d’altronde jazz vocale e canzone pop sono da sempre legati a doppio filo, il discorso però qui c’entra solo di striscio), bensì nei risultati: se i pezzi più ritmati e funky (in testa l’apertura con ‘Radio Song’) colgono nel segno, lo stesso non può dirsi dei momenti più rilassati e introspettivi, che, anziché regalare varietà, spezzano eccessivamente la tensione e più di una volta annoiano persino. Può sembrare poi presuntuosa la scelta di aggiungere un testo originale a ‘Endangered Species’ di Wayne Shorter e plasmarla in una specie di funk dal sapore anni ’70, ma il risultato quantomeno diverte: una stretta di mano per il “coraggio” ci sta tutta.

Globalmente discreto, ma se si fosse deciso di puntare tutte le fiches sul groove staremmo a parlare di un gran disco. Che poi sia jazz, pop, funk, death metal o folk irlandese poco importa. (Nico Toscani)

Comments are closed.