FREE FALL JAZZ

Lo dicevamo già da qualche parte altrove: lo scaffale (o il cestone) delle offerte dimenticate da Dio e da Satana è croce e delizia. Soddisfazione sbrodolante quando ci si porta a casa un capolavoro sconosciuto per pochi spiccioli, certo, ma anche residenza stabile di pattume senza possibilità di redenzione (“sucks ass”, direbbero gli amici anglofoni). Per quanto impregnato di un certo fascino perverso, il titolo di cui andiamo a parlare oggi è sicuramente ascrivibile alla seconda delle due categorie: il tipico disco che se si trova nel cut out bin c’è un motivo e non sarebbe una cattiva idea lasciarlo lì.

Con una rapida ricerca sull’amico Google scopro che la PMB, che nel 2006 ha pubblicato questa roba, è un’etichetta argentina specializzata in operazioni del genere, trattamento di cui è stata vittima gente come Madonna (pure pure), Stones (addirittura con due volumi, poveri loro), Ramones (…) e Bob Marley (questo qui lo immagino come IL MALE ASSOLUTO, sulla fiducia). Ora, fermatevi un attimo e provate a immaginare pezzi come ‘It’s So Easy’, ‘Welcome To The Jungle’ e ‘You Could Be Mine’ riletti in un frullato di elettronica da aperitivo con spruzzate jazz e bossa nova tipo compilation di Stéphane Pompougnac (ok, lo ammetto: il fine principale di quest’articolo era poter scrivere “Stéphane Pompougnac”). Forse non ci siamo capiti: musica da saletta lounge con una vocina delicata e ammiccante che  declama versi tipo “With Your Bitch Slap Rappin’ And Your Cocaine Tongue You Get Nothing Done”. Peraltro non sono neanche certo che dica “bitch”, potrebbero anche aver edulcorato il tutto inserendo una parola dal suono simile tipo “beat” o “bee”; per la cronaca ‘You Could Be Mine’ sembra una cover dell’ultimo Santana, ci manca giusto l’assolino caratteristico, e dal testo di ‘It’s So Easy’ vengono escluse tutte le parolacce, cioè il meglio: che amarezza.

Leggendo la tracklist scopriamo poi che il tutto dovrebbe essere addirittura una compilation: ogni pezzo è proposto da un artista diverso e la lista comprende nomi improbabilissimi, tanto che non mi stupirebbe scoprire che si tratta di studio project che coinvolgono bene o male gli stessi personaggi, dato che il suono è omogeneo e la voce della cantante sembra persino essere la stessa su buona parte delle canzoni. Tralasciando il fatto che dei pezzi in scaletta tre non sono neanche dei GNR ma cover che Axl e soci avevano in repertorio, c’è da ammettere che in un caso l’esperimento sembra non dico funzionare, ma almeno quasi passabile: le ruffiane sfumature pop di ‘Patience’ suonano infatti come un potenziale guilty pleasure, almeno finchè non interviene un terrificante assolo di flauto a riportarci alla cruda realtà. E quello stesso flauto fa capolino al posto del caratteristico riff di ‘Sweet Child O’Mine’: basta la parola.

Alla fine è tutto sintetizzato benissimo dal commento di un utente che su Amazon recensisce questo disco con quattro stelle su cinque: “Heard this CD in the background while having dinner in an upscale restaurant in Costa Rica just a week ago”. Cool story, bro. (Nico Toscani)

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