FREE FALL JAZZ

L’avevamo già anticipato nel pezzo su Guru: nella manica c’era pronto un piccolo compendio della golden age del cosiddetto jazz rap. Grossomodo un quinquennio (’88 – ’93) in cui iniziano a germogliare i semi gettati anni prima dai vari precursori (dal Miles di ‘On The Corner’ a Gil Scott-Heron, la lista è ben nota) e l’hip hop apre le sue vedute non solo al jazz, ma alle contaminazioni più disparate. Un matrimonio che, una volta celebrato, resisterà anche quando gli anni delle maggiori fortune commerciali saranno storia vecchia, sfornando proposte interessanti su entrambe le sponde “della barricata” (vi abbiamo già parlato di Russell Gunn, per esempio). Intanto godetevi questa piccola selezione di dischi focalizzata sui cinque anni fondamentali: quasi ognuno di questi titoli meriterebbe un più approfondito articolo a parte, il che però ci porterebbe eccessivamente fuori tema, considerando che ci troviamo sulle pagine di un sito jazz. Non è escluso che possa arrivare più avanti una terza puntata, comunque.

GANG STARR “No More Mr. Nice Guy” (Wild Pitch/EMI, 1989)
Musicalmente l’esordio dei Gang Starr è un disco “di passaggio”. Hip hop alla vecchia, ma che già fa suo un approccio molto creativo verso il sampling, pescando dai generi più disparati: funk soprattutto, ma anche jazz. E proprio ‘Jazz Music’ s’intitola uno dei pezzi di punta, costruito attorno a un campionamento di Ramsey Lewis. Ancora più popolarità gli varrà la celebre ‘Manifest’, che si “appropria” di uno stralcio di ‘Night In Tunisia’convincendo anche i più scettici che dalla comunella tra i due generi si possano ottenere risultati entusiasmanti. Branford Marsalis, chiamato da Spike Lee per la colonna sonora di ‘Mo Better Blues’, vorrà proprio loro per un brano, ‘Jazz Thing’, che campiona Thelonious Monk.

DE LA SOUL “De La Soul Is Dead” (Tommy Boy, 1991)
Dura la scelta tra l’esordio ‘3 Feet High And Rising’ e ‘De La Soul Is Dead’ di due anni successivo: vince il secondo forse perché giusto in pelo più “in tema” con questa rassegna, ma si tratta in sostanza di due ottimi lavori. Rinnegato simbolicamente tutto l’immaginario neo hippie che aveva caratterizzato il debutto, i De La Soul per qualche tempo assurgono a collettivo simbolo della fusione tra jazz e hip hop, ed è un fatto curioso, considerando che poi alla fine dei conti i campionamenti effettivamente provenienti da dischi jazz sono ben pochi. E dunque la genialità del trio di Long Island si nasconde nell’approccio, capace di infondere sfumature jazz anche a stralci di tutt’altra estrazione.

A TRIBE CALLED QUEST “The Low End Theory” (Jive, 1991)
A livello commerciale hanno vissuto un po’ all’ombra dei più fortunati amici/colleghi De La Soul, con i quali condividono peraltro l’immaginario non violento ed afrocentrico. Il capolavoro è ‘The Low End Theory’, concentrato di ritmi cupi e bassi profondi e pulsanti costruito attraverso un campionario di citazioni quasi esclusivamente jazz che vanno da Blakey a Hubbard, da Joe Farrell a Eric Dolphy fino a Cannonball Adderley e Gary Bartz: roba per palati fini. Un pezzo s’intitola ‘Jazz (We’ve Got)’: come se non l’avessimo capito. Enormi.

DREAM WARRIORS “And Now The Legacy Begins” (4th & B’Way, 1991)
‘My Definition Of A Bombastic Jazz Style’: il singolo di questi canadesi (che si rifà a ‘Soul Bossa Nova’ di Quincy Jones) vale quanto una dichiarazione d’intenti. L’album d’esordio entusiasma e li vede competere ad armi pari coi migliori De La Soul. Spettacolare anche ‘Wash Your Face In My Sink’, che si appropria della sottovalutatissima rilettura firmata Count Basie di ‘Hang On Sloopy’, in origine dei McCoys di Rick Derringer.

PHARCYDE “Bizarre Ride II The Pharcyde” (Delicious Vinyl, 1992)
Un plauso anche ai Pharcyde, quartetto di L.A. che nell’esordio ‘Bizzarre Ride II The Pharcyde’ ricorda un’ipotetica versione virata jazz di colleghi come Cypress Hill, The Goats e House Of Pain. Anche qui campionamenti a 5 stelle sin dall’iniziale ‘Oh Shit’, che cita ‘Oh Beale’ di Donald Byrd. Il resto pesca da quelli più in vista (Coltrane, Adderley, Armstrong), ma anche (soprattutto) dalle “retrovie”: Stanley Cowell, Herbie Mann, Eddie Russ… Intenditori.

ARRESTED DEVELOPMENT “3 Years, 5 Months & 2 Days In The Life Of…” (Chrysalis, 1992)
Nel 1993 li si beccava in TV praticamente ad ogni ora, veniva voglia di bastonarli sulle gengive per il solo fatto che esistessero. Nello specifico, nel loro ‘3 Years, 5 Months And Two Days In The Life Of…’ il jazz è solo una delle tante componenti: il sample di Ramsey Lewis in “U” va a contaminare l’hip hop assieme a dosi massicce di funk, di soul e quant’altro. Se dopo vent’anni persino l’hit ‘Tennessee’, all’epoca spintoci in gola fino alla nausea, suona ancora fresco, vuol dire che qualcosa di buono l’hanno fatto.

DIGABLE PLANETS “Reachin’ (A New Refutation of Time and Space)” (Elektra, 1993)
Ancora uno dei dischi più riusciti tra quelli che fondono hip hop e jazz affidandosi unicamente al sampling piuttosto che a strumenti “live”. Il cut-and-paste e il “riciclaggio” dei Digable Planets sono entusiasmanti e provare a riconoscere le citazioni diventa un gioco mai così avvincente prima: il fortunato singolo ‘Cool Like Dat’ campiona addirittura la clamorosa ‘Stretching’, pescata dal repertorio più sottovalutato di Art Blakey (‘Reflections In Blue’, 1978). Il resto, tra Lonnie Liston Smith e Rashaan Roland Kirk, non è da meno.

US3 “Hand On The Torch” (Blue Note, 1993)
All’apice del fenomeno jazz rap la Blue Note decide di battere cassa e reclamare la propria fetta di torta, da cui la mossa strategica di mettere sotto contratto gli US3, sigla dietro la quale si celavano due produttori inglesi  più vocalist vari. L’etichetta mette a disposizione il proprio intero catalogo, e dunque l’ossatura dell’esordio ‘Hand On The Torch’ è formata da campionamenti Blue Note, sebbene non manchino anche strumenti “live” (suonati perlopiù da gente del giro acid jazz albionico). Il progetto lascia freddini entrambi i mercati ai quali è potenzialmente destinato: privo di sufficiente credibilità “da strada” per i fan dell’hip hop, ancora troppo “insolito” per i jazzisti più conservatori.  ‘Cantaloop’ (basata su ‘Cantaloupe Island di Herbie Hancock) però riesce a far breccia nelle classifiche pop trasformando l’album in un clamoroso crossover hit: 1.000.000 di copie e primo disco di platino in assoluto per la Blue Note. L’avreste mai detto?

BUCKSHOT LEFONQUE “Buckshot LeFonque” (Columbia, 1994)
Buckshot LeFonque è il progetto con cui Branford Marsalis decide di sviluppare le idee già abbozzate con i Gang Starr in occasione di ‘Jazz Thing’. Proprio come il leader di questi ultimi, tenta la fusione dei due generi affidandosi a strumenti live anziché ai soli campionamenti, ma i risultati, per quanto ottimi, sono diversi dall’opera di Guru, che nell’insieme risulta più unitaria. L’esordio dei Buckshot infatti passa in rassegna un numero notevole di umori ed influenze: veri e propri pezzi jazz scanditi da beats hip hop, brani che sembrano una potenziale versione evoluta del ‘Doo Bop’ di Miles Davis, inflessioni funk e soul con tanto di cantato “non rap”, ma anche episodi in cui è la componente “moderna” a prevalere. Non tutto è sugli stessi livelli, ma le tracce migliori sono tanta roba. Tra i musicisti, il già citato Russell Gunn.

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