FREE FALL JAZZ

Il nome di Harold Land è legato essenzialmente alle sue collaborazioni con Max Roach prima (nel famosissimo, e giustamente, quintetto con Clifford Brown) e Bobby Hutcherson poi (in un periodo non troppo fortunato, a livello commerciale, per il vibrafonista). Molto meno nota la sua discografia personale, e come spesso si dice in questi casi… peccato! Sul perché si potrebbero aprire mille discorsi e tutti inutili; certo spostarsi a Los Angeles nel periodo in cui New York era tornata ad essere l’epicentro del jazz non l’ha aiutato professionalmente, anche se gli ha permesso di lavorare a stretto contatto con giovani musicisti underground (all’epoca!) come Ornette Coleman, Paul Bley e Don Cherry. ‘The Fox’ è forse l’album più conosciuto di Land, e lo coglie nella fase di mezzo della sua evoluzione: rispetto al periodo con Roach il suo tenore si è fatto più duro e asciutto, meno Don Byas e più Rollins/Gordon, in transizione verso lo stile  coltraniano a venire.

Nel quintetto figurano, oltre al leader e al già veterano Elmo Hope al pianoforte, due ritmici solidissimi come Herbie Lewis (contrabbasso) e Frank Butler (batteria), e poi la tromba fiammeggiante di Dupree Bolton, uno straordinario emulo di Clifford Brown che ha inciso pochissimo per la troppa dimestichezza con bottiglia, siringa, galera e vagabondaggio. I due fiati interagiscono con grande sicurezza nella frenetica title track, un hard bop velocissimo con un tema spezzettato e difficile che viene esplorato seguendo traiettorie labirintiche, avventurose con prudenza, e con un bel feeling blues sullo sfondo. E’ un brano scritto da Land, come ‘Little Chris’, curioso pezzo che abbina ritmi sostenuti ad un sax che fraseggia con la delicatezza e la dinamica che ci aspetteremmo in una ballad, recuperando a tratti il suono soffiato di qualche anno prima. La beffarda filastrocca del tema lascia pensare ad un effetto paradossale voluto (e riuscito). Gli altri brani sono opera di Elmo Hope, altro grande protagonista della session con un’ingegnosa scrittura a incastri, e a parte la cupa e vagamente monkiana ‘Mirror-mind Rose’, sono veloci e brillanti – anche se con un curioso velo di malinconia ironica sempre presente.

‘The Fox’ è un ottimo modo per conoscere  o approfondire la storia di un grande e sottovalutato artista che, magari senza troppo clamore, ha continuato a suonare musica di alto livello fino al 2001.
(Negrodeath)

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