“L’hip hop è il figlio del be bop”: a propugnare la teoria con queste parole fu un pezzo da novanta come Max Roach, non certo uno qualunque. In ambito jazz però non furono in molti a condividerne il pensiero. Certo, il senso delle sue parole non era letterale, voleva semmai evidenziare quella linea, immaginaria ma facilmente individuabile, che parte dagli spoken word su base intrisa di jazz di Gil Scott Heron , passa per l’Herbie Hancock electro-funk di ‘Rockit’ e arriva a precursori come i rapper Gang Starr, che all’esordio stupivano campionando ‘Night In Tunisia’ per la loro ‘Words I Manifest’, che spianava la strada agli exploit dei vari A Tribe Called Quest, De La Soul o Digable Planets, che pure imbottirono i loro album di campionamenti presi a prestito dal jazz con risultati freschi ed entusiasmanti, dimostrando come la sintesi tra i due generi fosse tutt’altro che inattuabile. Proprio durante il momento di massima popolarità di questi ultimi nomi il discorso compirà un’ulteriore, decisiva sterzata grazie all’intuito di uno dei suoi primi teorizzatori.
Una copertina che omaggia le grafiche in stile Blue Note e un sottotitolo eloquente: “an experimental fusion of hip hop and live jazz”. L’uomo è Guru, MC dei succitati Gang Starr, il disco è ‘Jazzmatazz’ (Chrysalis, 1993), la sua prima prova senza il compare DJ Premier. Lo stile della band madre viene sviluppato affidandosi a del jazz suonato (“live jazz”, appunto) piuttosto che a campionamenti vari, e dunque l’importanza oltre che squisitamente musicale diventa anche “storica”: si tratta del primo album (se non primo in assoluto di certo il più significativo) in cui le due componenti, hip hop e jazz, viaggiano in completo e naturale equilibrio, senza mai pestarsi i piedi né lasciare che l’una finisca col prevalere eccessivamente sull’altra. Tanta armonia viene raggiunta innanzitutto grazie all’impiego di musicisti di prima scelta, pescati principalmente in ambito bop: alla faccia di chi dice che tutto il jazz “non free” sia maldisposto verso le contaminazioni e le novità. Nascono così piccoli capolavori come la clamorosa ‘Transit Ride’, segnata dai sax di Branford Marsalis, o il groove di ‘Loungin’’, impreziosita dal piano e dalla tromba di un Donald Byrd in stato di grazia, per non parlare poi delle atmosfere soffuse di ‘Down The Backstreets’ (con Lonnie Liston Smith): roba forte all’epoca e ancora fresca vent’anni dopo. Al di là delle ospitate di rilievo, va riconosciuto poi come il flow di Guru (che in un paio di episodi cede il microfono a N’dea Davenport dei Brand New Heavies) si destreggi con nonchalance, tecnica raffinata senz’altro grazie alle ottime “prove generali” coi Gang Starr, dimostrandosi a suo agio in un contesto per lui a tratti inconsueto. Farà in tempo a regalare ben tre seguiti al progetto prima di lasciarci nel 2010 dopo una dura lotta contro il cancro. Se il secondo (‘Jazzmatazz Vol.2: The New Reality’, 1995) risulta ancora di un certo interesse, non altrettanto si può dire degli altri, di sicuro dispensabili. Il meglio però lo aveva già dato in questi solchi: una dozzina di canzoni in grado di entusiasmare qualunque appassionato di jazz senza paraocchi ed influenzare decine di musicisti in entrambi gli ambiti. Avercene. (Nico Toscani)