FREE FALL JAZZ

Lucques (basso) e Zaccai (piano) Curtis, negli ultimi anni, si sono fatti strada partecipando a dischi e tour di Orrin Evans, Brian Hogans, Sean Jones, Christian Scott, Donald Harrison, Etienne Charles e altri ancora. Tutti nomi, giovani e meno, del mainstream contemporaneo, e quindi è facile aspettarsi qualcosa in linea dal terzo album a loro nome. E infatti…

Per ‘Completion Of Proof’ i Curtis chiamano a corte i loro ex mentori, come il succitato Donald Harrison al contralto, il batterista Ralph Peterson (designato da Art Blakey in persona come batterista della Jazz Messengers Big Band), il trombettista Brian Lynch, il tenorista Jimmy Greene e ci aggiungono un paio di percussionisti. Da un simile dispiegamento di forze esce un lp polemico, sia nei confronti di quel jazz contemporaneo senza swing né forza comunicativa, sia in quelli di una società sempre più iniqua. Ma polemiche e discorsi stanno a zero, se la musica fa schifo, contrariamente a quel che pensa la critica più ideologizzata. Con l’ultima premessa ci si aspetterebbe ora una bella stroncatura sanguinolenta, vero? Invece da qui esce un suono imponente, quasi regale, un’emanazione diretta della musica di Art Blakey e del primo Marsalis, ben caratterizzato da una inarrestabile groove latino e dalla florida scrittura di Zaccai Curtis.

La poderosa ‘Protestor’, dedicata all’uomo che si oppose ai carri armati cinesi, esplode con un boato di fiati, tema e ritmi latineggianti e un bel piano molto percussivo: la gradevolezza delle linee melodiche, le tinte latine e la forte carica blues rimandano dritti all’epoca aurea dell’hard bop, con in più una tensione epica e oscura molto azzeccata che traduce efficacemente in musica lo spirito polemico cui si accennava prima. Pezzo forte la suite in tre parti ‘The Manifest Destiny Suite’, ovviamente la composizione più politicizzata del disco, con eccellenti contributi da parte di Jimmy Greene (tenore) e Joe Ford (contralto) e un esaltante magma di ritmi e colori latini; la narrazione, cupa e avvincente, si avvale di pesanti ostinati che creano tensione e stasi, risolta poi da fughe ad alta velocità, splendidi unisoni spagnoleggianti e assoli sempre ispirati – di grande effetto poi l’esplosione polifonica à la David Murray del secondo movimento, ‘Mass Manipulation’. Altri brani, come le più solari e rilassate ‘Madison’ e ‘Sol Niger’, enfatizzano la melodia, l’atmosfera blues  con alma latina e più in generale fanno da oasi luminose in un disco arrabbiato e teso.

In conclusione, un altro disco consigliatissimo che conferma la modernità inesauribile del linguaggio jazzistico radicato nell’hard bop. Sì, lo so, sono noioso e ripetitivo…
(Negrodeath)

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