Ormai prossimo ai quarant’anni, e perciò sulla soglia della maturità umana e artistica, il trombettista Sean Jones rappresenta il classico esempio (ma sono moltissimi i casi citabili) di un jazzista americano di prim’ordine che in Italia non riesce a trovare adeguato spazio concertistico a causa della ben nota programmazione ottusa e miope delle nostre direzioni artistiche che, in un diabolico mix tra artificiose pretese “cultural-progressiste” e ristrettissime conoscenze in materia, tendono ad appoggiarsi ad un circolo chiuso di agenzie proponenti sempre gli stessi nomi, sin quasi allo sfinimento, disegnando al pubblico un quadro delle proposte presenti sulla scena contemporanea del jazz a dir poco settario e pesantemente limitato.
A questo quadro, già grave di per sé, per musicisti come Jones si aggiungono altre imperdonabili aggravanti, come quella di aver avuto a che fare con il “reazionario” Wynton Marsalis e relative attività come trombettista principale della Jazz at Lincoln Center Orchestra, e quella di continuare a riferirsi alla propria (grande) tradizione musicale. Tutte cose che farebbero implicitamente ritenere certe proposte musicali del tutto esauste e “superate” a prescindere.
Non voglio qui sostenere che la cosa non accada, anzi, succede spesso di sentire un “mainstream jazzistico” ripetitivo e linguisticamente esausto (e forse qualcosa del genere accade anche qui, ma succede anche con certa sedicente “avanguardia”, per quel che mi riguarda). Il problema, tuttavia, è che c’è modo e modo di riallacciarsi alla propria tradizione (cosa che peraltro il jazz ha sempre fatto), senza contare che la musica andrebbe comunque ascoltata e non giudicata a priori in termini settari e utilizzando filtri ideologici, poiché ciò che dimostra qui di saper fare il trombettista dell’Ohio con il suo gruppo è molto più di una stanca e creativamente spenta ripresa di vecchi materiali e formule del jazz.
Sembrerà strano, ma si può ancora essere freschi e creativi anche esercitandosi in un canone musicale così ben definito, invece che pensare di essere tali semplicemente appuntandosi sul petto l’etichetta di “innovatori”. Anzi, per certi versi è forse più difficile dimostrare di esserlo nel primo caso, piuttosto che nel secondo, nel quale in troppi si illudono che con scelte estetiche fatte a prescindere dalla musica che si è in grado di produrre, ci si possa porre automaticamente nella categoria dei cosiddetti “creativi”. Queste sono solo delle comode scorciatoie che non aiutano minimamente l’eventuale crescita artistica del musicista e nemmeno la corretta divulgazione culturale verso il pubblico.
La musica prima di tutto, in sostanza, cioè prima delle scelte filosofiche o estetiche che vi possono stare appresso, occorre sempre non dimenticarlo, e la musica prodotta in questa registrazione “live” è, in buona parte, fresca e creativa, prodotta da musicisti artisticamente onesti e di pregevole livello, già in possesso di un curriculum di tutto rispetto, sia nella veste di musicisti professionisti che di educatori.
Questo ‘Live from Jazz at the Bistro’, è già l’ottavo lavoro del trombettista per l’etichetta Mack Avenue Records e rappresenta forse la sua uscita più dinamica, energica ed emotivamente coinvolgente della sua carriera, con un personale fuoco esecutivo oggi abbastanza raro da riscontrare. Avevo già avuto modo di apprezzare Sean Jones all’interno del SF Jazz Collective in un progetto su Miles Davis presentato a ottobre del 2016 nell’ambito di Aperitivo in Concerto a Milano, soprattutto per il suo senso del blues e un valido approccio melodico all’improvvisazione, ma qui ho avuto la conferma che non si trattava certo di un caso. I brani che in questo senso paiono fare la differenza sono ‘The Ungentrifed Blues’ e soprattutto quello finale, il lungo ‘BJ’s Tune’, un tema melodicamente accattivante di chiarissima ispirazione gospel (e la citazione di ‘Amazing Grace’ nella lunga coda finale pare chiarirlo inequivocabilmente) dove Jones si lascia andare ad un dinamismo esecutivo raro oggi da riscontrare, comunicando un coinvolgimento emotivo tipicamente afro-americano, peraltro rilevabile in moltissimi musicisti della tradizione “black”, non solo del jazz. Jones pare qui voler riaffermare in musica, con profondo garbo (in modo cioè meno “politico” e più musicale di quello utilizzato da alcuni esponenti della cosiddetta B.A.M.), ma anche con certo tipico sacro fuoco, le migliori peculiarità della tradizione musicale di sua appartenenza. In questo senso Jones si trova in grande sintonia con il pianismo di Orrin Evans, che qui dimostra ancora una volta tutte le sue notevoli doti musicali, oltre che di ferratissimo pianista jazz, fornendo un decisivo contributo alla riuscita dell’esibizione. Il resto del disco è tutto di ottimo livello e ben suonato, ma rappresenta forse un modern mainstream già battuto e sentito da altri gruppi del genere, tra un omaggio ad Art Blakey (‘Art’s Variable’) e chiari riferimenti alla musica post-quintetto di Miles Davis anni ’60 (‘Proof’, ‘Piscean Dichotomy’).
Chiudiamo lo scritto semplicemente citando gli altri validi componenti del gruppo che contribuiscono alla compattezza e all’equilibrio della musica: il contraltista Brian Hogans, il bassista Luques Curtis e, a rotazione, i batteristi Obed Calvaire (anch’egli sentito e apprezzato nel citato concerto milanese degli SF Jazz Collective) e Mark Whitfield Jr.
(Riccardo Facchi)