Cosa oggi può essere definito nello scenario contemporaneo della musica improvvisata “avanguardia” o “musicalmente avanzato” e secondo quali schemi critici e culturali di riferimento lo si afferma?
Questa è la domanda che tra amici e conoscenti ci si poneva ieri all’uscita dal Teatro Manzoni di Milano, dopo aver ascoltato (ed apprezzato, lo scrivo subito) il concerto degli Industrial Revelation. Una formazione di Seattle composta da giovanissimi emergenti musicisti che si esibivano per la prima volta, non solo in Italia, ma persino fuori dai confini nordamericani. A tal proposito, ritengo necessario innanzitutto ringraziare la direzione artistica di Aperitivo in Concerto, per lo sforzo che compie da anni nel ricercare nuove proposte e nel dare l’opportunità  al pubblico (non solo milanese) di poter usufruire di un variegato aggiornamento musicale e culturale sul panorama contemporaneo, riuscendo a disegnare, pur con i propri ovvi limiti organizzativi, un quadro molto meno asfittico e stagnante di quello mediamente proposto nei cartelloni dei festival italiani, spesso autoreferenziali nei gusti musicali, ripetitivi oltre ogni limite di sopportazione, dove par di rilevare più attenzione alle esigenze private dei manager dei musicisti che alla qualità dell’offerta culturale da proporre al pubblico.
In questo senso, il discorso si ricollega alla domanda iniziale, poiché abbiamo assistito ad una esibizione di musica fresca e cangiante, ma fatta con ingredienti tradizionali, non solo del jazz, che un certo pensiero purtroppo ancora dominante in questo paese, vecchio e ammuffito culturalmente prima ancora che anagraficamente, non esiterebbe a definire come proposta “leggera”, “commerciale” e in sostanza “conservatrice”. Implicitamente, cioè, si sottintende che, nel 2017, una musica che escluda sistematicamente un qualche minimo accenno alle esperienze della musica liberamente improvvisata degli anni ’60 o a quelle delle successive avanguardie chicagoane anni ’70 non possa in alcun modo essere presa in considerazione come un progetto di musica “avanzata”. Proprio per questa ragione, parlando di Roscoe Mitchell (in relazione anche al recente suo concerto milanese proprio inserito nel cartellone della stagione di Aperitivo in Concerto, naturalmente lodato da quasi tutti, direi persino a prescindere dalla musica proposta) qualche giorno fa sul mio blog personale titolavo uno scritto con “eterna avanguardia”. Ritenere infatti che un settantaseienne possa oggi rappresentare l’avanguardia in ambito di musica improvvisata può significare solo due cose: o che essa è rimasta ferma in questi decenni, o che qualcuno, invecchiando, voglia sentirsi inconsapevolmente sempre “all’avanguardia”, rifugiandosi eternamente nella musica delle proprie icone giovanili, rifiutandosi di seguire quelle trasformazioni che è la musica stessa, piaccia o meno, a proporre, al di là dei gusti e delle opinioni di ciascuno.
Il concerto dei quattro baldi giovanotti americani di Seattle, il trombettista e compositore Ahamefule Oluo, il tastierista Josh Rowlings, il contrabbassista Evan Flory- Barnes e il batterista-leader D’Vonne Lewis (tutti allievi di Hadley Caliman, un tenorsassofonista poco noto ai più, che ha suonato negli anni ’70 a fianco di Freddie Hubbard, Dexter Gordon e Carlos Santana) ha prodotto, come accennavo, una sorta di post-jazz molto basato su melodia e energia ritmica, in grado di far muovere e danzare gli stessi musicisti sul palco e di divertire il pubblico. Una musica fresca, abbastanza fuori dagli usuali schemi, basandosi paradossalmente su musica “vecchia”, in una sorta di melting pot linguistico davvero interessante e pure divertente, tra New Orleans, Rock&Roll, ritmi rock, swing (persino Gene Krupa…), funk, ritmi da disco music, oltre agli immancabili anche se sfumati, blues e gospel, mescolati ad un approccio fraseologico in improvvisazione comunque sempre jazzistico, accompagnato anche da una ricerca timbrica che ha fatto uso adeguato di strumenti ed effetti elettronici. A tratti si è sentito anche richiamare lo stile fusion CTI anni ’70, ma si è sentita molta melodia nell’approccio compositivo sia del trombettista, in possesso di un suono molto lineare con increspature growl e del pianista (l’unico bianco dei componenti del gruppo) in possesso di una forte carica energetica da vecchia star del rock&roll, ma anche di una inattesa vena romantica, mentre il bis ha proposto un brano del rock britannico dei Radiohead. La presenza in alcuni brani del cantante ospite Okanomodé Soulchilde ha permesso di inserire nel variegato contesto anche il richiamo all’approccio vocale proprio della tradizione dei grandi cantanti del soul e della musica pop afro-americana, con tanto di falsetto in stile Earth Wind & Fire e dintorni.
Quel che davvero sembra mantenere di jazzistico questa proposta, al di là del più o meno discutibile risultato musicale finale, che comunque è da mettere ulteriormente a punto, è in fondo la prassi metodologica storica del jazz, ossia quella di saper fagocitare qualsiasi materiale musicale e di saperlo fare proprio in una proposta nuova che si basa sulla fusione dei più diversi linguaggi musicali.
Piaccia o no, anche questa deve essere considerata una forma di sperimentazione e contemporaneità musicale e forse manifesta di esserlo anche più di tante altre pregiudizialmente celebrate. In sintesi finale mi sento di riportare in toto lo scritto quanto mai centrato di una recensione dell’amico Negrodeath, che descrive al meglio ciò che si è potuto sentire anche sul palco del teatro milanese:
“Se la battaglia per riportare di nuovo il jazz (senza sconti né ruffianerie) in mezzo al pubblico casuale sembra persa in partenza, purtroppo, gli Industrial Revelation sono uno di quei nomi che meglio potrebbe riuscire ad oltrepassare i confini del ghetto jazzistico e farsi apprezzare. Il quartetto di Seattle, guidato dal batterista e compositore D’vonne Lewis, sintentizza un sound moderno, originale, sofisticato ed accessibile…. Groove e melodia sono i due punti essenziali degli Industrial Revelation, che costruiscono i loro brani sull’energia ritmica, armonie quasi pop e splendide melodie, con grande risalto per la tromba di Ahamefule J. Oluo: il suono robusto, l’attacco esplosivo, lo stile quasi cantato e squillante si ricollegano alle grandi trombe del sud, da Louis Armstrong a Clark Terry fino a Nat Adderley e Wynton Marsalis. E parlando di Marsalis, la band sembra prendere le mosse dal suo eccezionale quartetto degli anni ’80, quello di ‘J Mood’ per intendendersi, per poi spingersi nella direzione di Russell Gunn e Christian Scott, con strumenti elettrici (Fender Rhodes e synth in primis) e ritmi swingati fusi con altri funk, hip hop e marching band, senza dimenticare frastornanti blues e gospel in chiave elettrifica e l’immediatezza comunicativa del rock”
Platea piena in ogni ordine di posto e pubblico domenicale divertito e plaudente. Cattivo segno per certi amanti della sofferenza uditiva nell’arte musicale, ma tant’è, occorre rassegnarsi, ballo, intrattenimento e divertimento hanno sempre fatto parte del jazz e della musica americana tutta. Se non si è in grado di accettarlo, si farebbe prima e meglio a dire che non si apprezza quella cultura musicale, piuttosto che appiccicargli continuamente sprezzanti etichette di stampo ideologico che di fatto non gli appartengono minimamente.
(Riccardo Facchi)