FREE FALL JAZZ

Scriviamo spesso e volentieri di quanto il panorama americano brulichi di nuovi proposte che riescono a portare avanti il jazz senza prescindere dalle sue caratteristiche. Bene, il quartetto degli Industrial Revelation, da Seattle, si aggiunge al numero dei brillanti giovani di belle speranze. Giovani che, fra mille difficoltà e apprezzabile ottimismo, fanno di tutto per divulgare la propria musica in giro, gestendosi rigorosamente in proprio. Abbiamo recensito il bellissimo ‘Revelation And The Kingdom Of Nri’ qualche mese, adesso ascoltiamo le parole di D’Vonne Lewis, batterista e leader del gruppo, in vista del concerto di Milano del 26/02. 

Per prima cosa, parlaci della storia degli Industrial Revelation!
“In maniera piuttosto originale, ho dato vita agli Industrial Revelation per tenere in vita il mio nome di famiglia, Lewis. Sapevo che era qualcosa di più grande di me che avrei dovuto fare. Il mio bisnonno aveva insegnato chitarra e toeria musicale a Jimi Hendrix e Quincy Jones. La mia bisnonna era una pianista di primo rango nelle chiese battiste della zona di Washington. Mio nonno Dave Lewis era un famoso organista nella zona della costa nord-ovest negli anni ‘50, ‘60 e primi ‘70. Divenne parte della Seattle Jazz Hall Of Fame a fine anni ‘80. Volevo seguire le orme della mia famiglia e essere parte della ricca famiglia-dinastia dei Lewis, così come seguire il mio destino, così ho dato vita ad una band e il resto è storia. Siamo insieme da dieci anni, cosa che per me è un grande traguardo indescrivibile a parole, mi riempie davvero di gioia.”

Da dove viene il nome?
“Volevo che la band avesse la parola ‘Revelation’ nel nome, non solo perché ero cosciente che sarebbe stata una rivelazione per tutti gli amanti della musica, ma anche perché ero sicuro che avrebbe catturato l’attenzione. Sapevo che, una volta ascoltato il gruppo, la gente sarebbe stata prese da tutte le nostre sfumature, quelle che nel loro profondo cercavano da tempo… per questo ‘revelation’. Per quanto riguarda ‘Industrial’, è stata un’idea scherzosa degli altri. C’è l’assonanza con ‘industrial revolution’, che è un po’ ironico perché dieci anni fa provavamo a mettere insieme jazz, blues, rock, fusion, soul etc in modo, più che industriale, davvero industrioso, per arrivare ad una musica originale. Da tutto ciò, Industrial Revelation!”

E’ un nome particolare, e lo è doppiamente nel contesto del jazz, dove di solito spicca il leader seguito eventualmente da “trio”, “-tet” o “orchestra”. Quasi più da gruppo rock…
“Infatti volevo qualcosa di diverso. Inizialmente pensavo a ‘D’Vonne Lewis Quartet’, ma ci avrebbe subito incasellati come l’ennesimo gruppo di puro jazz. E’ musica che amo, sia chiaro, ma volevo mettere in evidenza tutti gli aspetti della nostra. In più, avere un’identità distinta ci avrebbe dato un po’ di pressione in più. Volevo che ognuno di noi fosse libero di portare qualsiasi brano, originale, standard, o quelle cover che gli altri gruppi in cui avevamo suonato prima non volevano provare. Questo gruppo si basa sulla libertà di espressione.”

Alle mie orecchie, la vostra musica è a metà strada fra il quartetto di Wynton Marsalis degli anni ‘80 (quello di ‘J Mood’ e ‘Live At The Blues Alley’) e il lavoro di musicisti successivi come Russell Gunn e, più recentemente, Christian Scott: jazz moderno imbevuto di rock, soul, hip-hop e funk.
“E’ interessante quello che dici, perché quando presi la decisione di formare il gruppo e fare il primo giro di chiamate fra i musicisti della zona stavo ascoltando ‘Live At The Blue Note’ di Marsalis. E’ il motivo per cui ho scelto la formazione: tromba, tastiera, basso e batteria. Josh (Rawlings, nda) usa il piano Fender che apre più possibilità e aggiunge un tocco extra a qualsiasi stile vogliamo suonare. Adoro la tromba e Aham (Ahamefule J. Oluo, nda), con la sua pedaliera di effetti, aggiunge un carattere nostalgico e coinvolgente. Evan (Flory-Barnes,nda) ha cominciato col basso elettrico, così adesso è in grado di portare una sensibiltà rock e funk al contrabbasso, dandoci una spinta ulteriore. Così direi che sì, siamo stati molto ispirati da Wynton, ma volevamo allo stesso tempo spingerci in un’altra direzione. Essere diversi ma simili per tanti versi, se mi spiego. E poi sono stato ispirato pure dagli altri nomi che hai fatto. Loro, come noi, cercano vie espressive nuove e personali, mettendoci tutto, gioie, dolori, speranze, paure, sogni e disgusto. Mi piacciono molto.”

Cos’è il Regno di Nri?
“Aham ce ne ha parlato per la prima volta. Se cerchi su Google, puoi leggere che il Reame di Nri costituisce un’anomalia nella storia umana, perché i suoi leader non esercitavano alcun tipo di potere militare sui sudditi. Mi piace farne una metafora: la nostra musica non ti ordina che sensazioni tu debba provare mentre la ascolti, o come tu voglia esprimerti mentre lo fai. Ognuno di noi è libero di scegliere come esprimersi, che sia suonando, ascoltando, ballando o chiudendosi nei propri pensieri. Nessuno dovrebbe dire agli altri come sentirsi. Per quello c’è la musica, che ci libera. Per questo abbiamo intitolato il disco ‘Liberation And The Kingdom Of Nri’.”

Moltissimi jazzisti di oggi vogliono riunire il jazz alle forme più popolari della musica nera contemporanea, che sia funk, soul, hip-hop etc. Come dire che tutto ciò che dal jazz è nato al jazz ritorna, come già facevano Miles Davis, Horace Silver, Cannonball Adderley, Freddie Hubbard, Art Blakey e molti altri – giustamente. Come mai, invece, per molta gente il jazz è lo stereotipo della musica noiosa da professorini?
“Per me, la musica in qualche modo deve muoverti. C’è chi vuol ballare, c’è chi preferisce starsene seduto con gli occhi chiusi ad ascoltare. Non posso parlare per gli altri artisti, né stabilire un modo corretto di ascoltare alcunché, ma io cerco di ‘elevare’ chi ci ascolta. Certo, il jazz pure per me è una cosa seria, ma in un certo modo tutta la musica lo è, specialmente se esprime davvero emozioni. Soul, funk, hip-hop fanno muovere la gente, così se unisci questa componente con la profonda emozionalità del jazz, ne esce una combinazione potentissima. E poi qualunque cosa ti faccia ballare è sempre ben accetta.”

Mi è piaciuta moltissimo ‘Fun Girl’, con una tromba eloquente ed energica che ricorda molto Louis Armstrong e Clark Terry. Potrebbe funzionare bene in radio, ce ne fosse una con un minimo di coraggio. Che importanza date a melodie e temi?
“E’ una composizione originale di Aham, ed è davvero bella. Alcune radio locali l’hanno passata, ma sono d’accordo, potrebbe e dovrebbe girare di più nelle stazioni di tutto il mondo. Non solo ha quegli elementi da party di New Orleans con Louis Armstrong che tiene banco, ma è piena di gioia, fa stare bene, come un gospel. Quella canzone porta le ragazze in pista ogni volta, per questo la dedichiamo a tutte le ‘fun girl’ – incluse quelle italiane! Grandi melodie e grandi temi sono fondamentali. Molto spesso sono le prime cose che ci fanno memorizzare la musica e legano le nostre emozioni ad essa. Molti compositori vogliono che una melodia resti in testa agli ascoltatori. Puoi anche scrivere qualcosa che per te è un ottimo ritornello, una linea melodica vincente, e poi scopri che l’attenzione delle persone si è concentrata su tutt’altra parte. A volte non sei in grado di dire, a priori, quale melodia sarà ‘grande’, ma di nuovo, se la componi e la suoni con onestà, energia e convinzione, è già una hit per quanto mi riguarda.”

‘Ellison Ellington’ è un riferimento a Ralph e Duke, immagino. Qual è l’idea dietro a questo brano?
(Interviene Aham, l’autore):”Si tratta in effetti di un riferimento a Ralph e Duke, e sono un grande appassionato di entrambi. La musica mi è saltata in mente leggendo alcuni scritti di Ellison sul jazz, pensando a come ci sia qualcosa di indescrivibile, chiamala scintilla o magia, in ciò che entrambi fanno. Le parole ‘They’ve got that Ellison Ellington’, su cui si basa la melodia portante, mi si sono materializzate in testa e sono rimaste lì.”

Il sassofonista Jeff Coffin, noto per il suo lavoro con Bela Fleck e Dave Matthews Band, è vostro ospite. Come lo avete raggiunto?
“Ragionando sul suono potente che voleva dare a ‘No Way Out But In’, Josh pensava che un altro fiato avrebbe reso speciali i momenti più accesi. All’inizio voleva coinvolgere qualcuno della scena locale, come Skerik, Chris Colon o altri fantastici musicisti, ma poi decise di provare a contattare Jeff Coffin. Lo aveva visto suonare per la prima volta con Dave Matthews, appunto, quando per la prima volta sostituì lo scomparso LeRoi Moore, dopodiché aveva cominciato a seguire tutti i progetti in cui fosse coinvolto. Per farla breve, un giorno Jeff si trovava ad un nostro concerto in un piccolo locale di Seattle. Josh colse l’occasione per conoscerlo e chiedergli se gli andasse di aggiungere un po’ di sassofono ad una canzone su cui stava lavorando, e lui accettò con piacere – registrò poi tutto a casa sua, in Tennessee, aggiungendo sovraincisioni di contralto, tenore e baritono. Il tocco speciale di Jeff ha davvero aggiunto qualcosa di speciale, e averlo sull’album è stato un complimento e un onore per noi tutti.”

Molti musicisti ricorrono all’autopubblicazione e all’autopromozione, oggi. E’ ormai necessario, e quali sono per te i pro e i contro?
“E’ un argomento dibattuto molto spesso. Penso che al tempo doveva essere bello poter contare su una casa discografica che ti anticipa le spese e si occupa della promozione. Oggi, una volta che hai pubblicato il disco, hai i mezzi per gestire la tua carriera in prima persona, grazie a internet. L’unico lato spiacevole è che le grosse compagnie di streaming si tengono un bel pezzo della torta, finanziariamente è ingiusto e rende tutto più difficile, ma allo stesso tempo ha il vantaggio indubbio di rendere la tua musica accessibile a tutti in qualunque momento. In definitiva, ci sono pregi e difetti e dipendo molto da cosa vuoi gestire in prima persona e cosa preferisci delegare. Al momento facciamo tutto da noi, dalla prenotazione dello studio alla stampa dei cd, che poi vendiamo ai concerti o su internet, all’organizzazione dei tour. Preferisco così perché, anche se è faticoso, non ci sono intermediari e stabilisco un rapporto più diretto col nostro pubblico.”

Domenica suonerete a Milano per la prima volta. Dì ai lettori perché non dovrebbero assolutamente mancare!
“Gli Industrial Revelation sono una band incentrata sulla gioia, la connessione reciproca e il desiderio di offrire un’esperienza emozionante e commovente. Non suoniamo solamente per noi e per il pubblico, invitiamo noi stessi e il pubblico a sentire direttamente l’amore, la gioia, il dolore; per esprimere la storia delle nostre vite in uno show. Anche se siamo americani e non parliamo italiano, possiamo comunicare con tutti usando la lingua comune delle emozioni e della musica. Perché perdere l’opportunità di sentirsi parte di qualcosa di più grande di noi stessi e provare gioia e amore allo stesso tempo? Venite, divertitevi, e riceverete in cambio un sentito ed emozionante abbraccio musicale da parte nostra. Vi garantisco che non ve ne pentirete!”

http://www.industrialrevelation.com/

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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