FREE FALL JAZZ

Questo scritto è stato pubblicato su Musica Jazz di febbraio dello scorso anno e qui presentato, come già in altre occasioni analoghe, nella sua forma originaria, completo ove possibile di link musicali e riferimenti discografici inseriti nel testo. Ringraziamo il direttore di Musica Jazz Luca Conti per l’assenso informale alla pubblicazione.

Buona lettura

R.F.

Siamo in un periodo storico nel quale spesso si parla, a volte anche abusandone, di “contaminazioni”, per sottolineare una tendenza attuale del jazz e delle musiche improvvisate più in generale, alla fusione di una molteplicità di linguaggi musicali, anche geograficamente distanti e profondamente diversi tra loro. Pensando però bene al significato del termine, ci si rende conto che esso viene utilizzato ad esempio nelle scienze naturali per indicare la presenza di un agente inquinante verso un supposta “purezza” ambientale. Applicarlo ad un linguaggio musicale, e nel caso specifico al contesto jazzistico, può essere quanto meno contraddittorio, poiché il jazz, per sua natura e per sua stessa genesi, è una forma musicale intrinsecamente “spuria”, la cui forza propulsiva e innovatrice si è sempre manifestata proprio dall’incontro non artificioso tra etnie e relative culture musicali.

Curiosamente e a tal proposito, vi è da notare come schiere di jazzofili si siano invece storicamente divise in fazioni contrapposte: tra “tradizionalisti” e “modernisti” (successe con l’avvento del Be-bop), conservatori e progressisti (particolarmente dopo l’avvento del Free, con il suo coté socio-politico), associando spesso ai primi un’idea di ”purismo jazzistico”, a supposta difesa dell’integrità del linguaggio, combattuta invece dai secondi.  Entrambe le parti, e per motivi diametralmente opposti, paiono dunque aver mancato il senso stesso della questione, perdendosi in una discussione sostanzialmente inutile, poiché si sprecano i personaggi esemplari che, sin dagli inizi, hanno contribuito a costruire questa musica sfruttando proprio quel “meticciato” culturale, dovuto alla presenza sul territorio di diversi vernacoli.

Se ci si vuole allora esprimere più propriamente in un contesto fatto di naturale intreccio linguistico, oggi è rilevabile che un pioniere del genere come Dizzy Gillespie sia stato inopinatamente dimenticato, soprattutto in termini di commistione di diverse culture musicali e fusione di ritmi diversi da associare al caratteristico “swing” jazzistico. Pur con l’orgoglio nel suo patrimonio musicale afro-americano, egli ci ha infatti lasciato un’eredità musicale che ha cercato di abbracciare altre culture, con particolare attenzione a quelle con profonde radici nell’Africa, come la musica cubana, brasiliana e caraibica, operando sempre con la genuina capacità di trascendere i confini nazionali ed etnici.

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Una delle ragioni della supposta dimenticanza potrebbe essere dipesa dal fatto che Gillespie è stato sempre identificato come una icona del Be-bop, cioè come protagonista di un ambito stilistico ben definito, ovvero come uno strepitoso ed influente trombettista, un innovatore alla pari di Charlie Parker, che ha contribuito a costruire quel linguaggio del jazz moderno che ancora oggi fa sentire la sua “onda lunga” d’influenza e costituisce la colonna portante del cosiddetto “mainstream”. Oggi egli dovrebbe invece essere considerato anche una figura molto più attuale e musicalmente aperta di quanto non venga solitamente raccontato.

Come affermava Budd Johnson[1]: “Dizzy conosce tutti i ritmi, le percussioni della musica nera, africana, cubana, brasiliana. Sa sempre dove cade il beat. A volte quella musica è talmente complessa che per il musicista medio è difficile capire dove sta l’”uno”; rischi di andare fuori tempo. E invece Dizzy lo sa sempre. E’ fenomenale”. “Birks”, infatti, ha una lunga storia di relazione con tali ritmi.

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Sin da giovanissimo, ai tempi cioè della sua appartenenza alla formazione di Cab Calloway a fine anni ’30, si era interessato ai ritmi afro-cubani, grazie alla frequentazione del collega di sezione, il cubano Mario Bauzà, diventando a fine anni ’40 uno dei protagonisti assoluti del cosiddetto “Afro-Cuban Jazz”, esplicandolo nella composizione di opere come MantecaAlgo Bueno, più in là Tin Tin Deo e Con Alma, oltre ad eseguire la “Afro-Cuban Drum Suite”, meglio nota come Cubana Be-Cubana Bop, composta da George Russell con la collaborazione del percussionista cubano Chano Pozo, opera che ricevette al tempo (1948) una accoglienza trionfale alla Carnegie Hall e, nello stesso anno, in Europa, a Parigi. Non a caso, ancora oggi Gillespie è considerato a Cuba uno dei musicisti americani più stimati e popolari.

E’ però meno noto che egli fu anche tra i primi (il primato spetta senza dubbio a Bud Shank, che con il chitarrista brasiliano Laurindo Almeida incise nel 1953 i due volumi pubblicati dalla Pacific Jazz intitolati “Brazilliance”) a esplorare i ritmi del continente latino-americano, con particolare riferimento al Samba e alla Bossa Nova, da esso derivata.

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Ricostruendo gli eventi ad inizio 1956, Gillespie, di passaggio a Washington, fu convocato alla Camera dei Deputati per ricevere dal Dipartimento di Stato l’incarico di formare una orchestra (con l’aiuto di Quincy Jones che ingaggiò tra gli altri Phil Woods, Billy Mitchell, Charlie Persip, Benny Golson, e Melba Liston) che rappresentasse il Paese in tutto il mondo, con obiettivo iniziale l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia. Gillespie accettò e ebbe così l’onore di essere il primo tra i jazzisti ad inaugurare la serie organizzata dal Dipartimento (in seguito ci furono Benny Goodman, Duke Ellington e Earl Hines).

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La tournée ebbe così successo che venne autorizzato nell’estate di quello stesso anno un secondo tour, stavolta attraverso i paesi latino-americani. In Brasile, Gillespie venne così direttamente a contatto con il Samba e i gruppi autoctoni che lo suonavano, incontrando anche il grande compositore Heitor Villa-Lobos. Quel viaggio e quegli incontri furono illuminanti. Come egli stesso ha affermato nella sua autobiografia:”(…) Quando arrivai in Brasile scoprii che la nostra musica aveva un sostrato comune, Capii davvero questo legame quando mi portarono alla Escola de Samba di Rio de Janeiro. Alla scuola di samba suonavano tutti gli strumenti ritmici e la gente ballava. Danza e ritmo, il gioco è fatto. Nessuno strumento melodico. Erano i ritmi stessi a creare le melodie(…). L’esperienza brasiliana ha allargato davvero i miei orizzonti musicali. Mi ha fatto capire che la musica è una, e che le varie tradizioni etniche possono combinarsi in completa armonia, senza perdere le qualità distintive di ciascuna, senza perdere le diversità. (…)Conosco i ritmi latini e in più metto sempre il mio stampo personale sulla musica che suono. Non ricopio quello che fanno i sudamericani. La mia musica si armonizza con la loro, ma non è esattamente uguale perché penso che la musica, la musica etnica, vada vissuta. Devi vivere la loro vita per suonare come loro”.[2] Lo stesso Gillespie sosteneva, nel medesimo testo, di conservare i nastri di una sessione fatta al Gloria Hotel con Cepao, l’arrangiatore capo degli studi televisivi brasiliani.

0faf12cbffa5f13921ae8d6f528bdf6cIn discografia esiste in effetti la tarda documentazione di quel tour latino-americano in tre volumi, intitolata Dizzy in South America. Il terzo volume di registrazioni, composto da due CD, contiene sei tracce intriganti ed inedite, con Gillespie che suona con un’orchestra di samba, pare però di Buenos Aires e non di Rio (tuttavia, titoli come Cepao’s Samba e Gloria Samba sembrerebbero confermare quanto scritto da Gillespie), adattandosi facilmente ai ritmi sudamericani. A Buenos Aires, che comunque fece parte delle mete previste dal tour, Gillespie conobbe anche il giovane compositore e pianista argentino Lalo Schifrin, che tanta parte avrà nei suoi successivi progetti, e al quale chiese di venire da lui negli Stati Uniti, appena gli fosse stato possibile. Significativo il suo giudizio sul contributo del trombettista riportato nella citata autobiografia: “(…) Dal punto di vista musicale, nel complesso, Dizzy ha un qualcosa che va oltre. Non è un semplice trombettista. Di trombettisti ce ne sono molti altri che sono bravi, Miles Davis, Clifford Brown, ma Dizzy è un trombettista fenomenale, il migliore. Ha una musicalità molto più profonda e ha dato uno dei contributi maggiori allo sviluppo della musica americana. E mi rattrista vedere che molti non lo sanno. Gli stessi musicisti spesso non se ne rendono conto. La sua bravura va al di là del suonare uno strumento o  fare un buon assolo”.

Negli anni successivi proliferarono i jazzisti americani ben disposti ad andare in tour ed incontrare la musica latino-americana. Nella primavera del 1961, infatti, il governo degli Stati Uniti, sempre tramite il suo Dipartimento, recitò un ruolo decisivo nella diffusione del jazz moderno oltre confine, inviando in America Latina, il chitarrista Charlie Byrd, assieme ad altri jazzisti come Roy EldridgeKenny DorhamColeman HawkinsCurtis Fuller e Zoot Sims. L’idea del Dipartimento di Stato era che l’esportazione del jazz fosse uno strumento politico di promozione positiva dell’immagine degli U.S.A. La conseguenza di quell’esperienza portò quasi tutti i musicisti coinvolti a incidere negli anni immediatamente successivi opere miscelate ai ritmi brasiliani, utilizzando musiche dei compositori di Samba e Bossa Nova in auge, come A.C. Jobim. Luiz Bonfà, Ary Barroso e Joao Gilberto.

145007Il fatto dimostra, ancora una volta, come le innovazioni nel jazz siano comunque di difficile attribuzione individuale, in quanto quasi sempre prodotte come risultato di uno scambio di idee, di informazioni e di contributi intorno alla musica di una collettività di musicisti, più che pensate dal singolo. In ogni caso, è interessante notare che Dizzy Gillespie sia stato in quel periodo un protagonista assoluto del genere. La faccenda è documentata anche discograficamente in A Musical Safari, un concerto registrato nel settembre 1961 al Monterey Jazz Festival, nel quale la band di Gillespie, sotto la spinta del pianista argentino Lalo Schifrin, suona Pau de Arara, una composizione di Vinicius de Moraes e Carlos Lyra, e soprattutto Desafinado, di A.C. Jobim, prima quindi del successo planetario di Stan Getz e Charlie Byrd di Jazz Samba, datato febbraio 1962[3]. Così come, in quello stesso 1961, Gillespie produsse diverse opere orchestrali e arrangiamenti con la decisiva collaborazione del citato Schifrin (riferendoci ad un concerto alla Carnegie Hall con un peculiare nuovo arrangiamento “latin” del pianista argentino su Manteca), documentando così complessivamente un importante contributo a quella commistione tra le culture musicali nord-americana e latino-americana che più avanti verrà etichettata stabilmente come “Latin Jazz”. Tito Puente arrivò addirittura ad affermare che Gillespie fosse il “padre del Latin” ed è facile, in ogni caso, constatare come la scena jazzistica odierna sia così intrisa di ritmi latini, da renderli ormai parte integrante dell’idioma jazzistico stesso.

Con il suo eccezionale quintetto formato nei primi anni ’60 dal texano Leo Wright, flauto e contralto (poi sostituito persino in meglio da James Moody), Lalo Schifrin al piano (poi rimpiazzato dal giovanissimo, ventenne, Kenny Barron), Chris White al contrabbasso e Rudy Collins alla batteria, Gillespie prese ad utilizzare costantemente i ritmi brasiliani del Samba e della Bossa Nova nel suo repertorio discografico e concertistico (cosa che peraltro fecero nello stesso periodo anche altri, a cominciare da Zoot Sims con gli album New Beat Bossa Nova, Vol. 1&2Coleman Hawkins con Desafinado e Herbie Mann con Brazil, Bossa Nova & Blues, ma pensandoci bene, anche John Coltrane affrontò occasionalmente già nel 1958, Bahia di Ary Barroso), alternandoli ai vecchi cavalli di battaglia del periodo be-bop, opportunamente aggiornati, ma dando anche spazio a nuova musica sua o di compositori emergenti, come lo stesso Schifrin, o Tom Mc Intosh, docente di trombone alla Julliard di New York, compositore sulla linea Tadd Dameron-Gigi Gryce-Benny Golson e apprezzata conoscenza di James Moody, in quanto trombonista e direttore musicale della sua band.

mi0001834854La conferma viene già dalle prime registrazioni in studio in una sessione del maggio 1962 per Philips (pubblicata nella sua completezza solo nel box Mosaic intitolato The Verve/Philips Dizzy Gillespie Small Group Sessions) contenente materiale utile per la pubblicazione di due dischi: Dizzy on the French Riviera e New Wave e comprendente due versioni di Chega de Saudade (No More Blues), forse il brano brasiliano suo preferito e più frequentato in quegli anni, DesafinadoManha de CarnavalOne Note Samba, il già citato Pau De Arara e Perguente Ao Joao, misti ad altro materiale di sapore afro-cubano, come Taboo di Margarita Lecuona (figlia del console cubano a New York), Cubano Be di George Russell e il suo A Night in Tunisia, oltre a Kush, una recente sua composizione dedicata alla madre Africa.

51ydvl2kh7lGillespie, in un periodo di massima forma della sua carriera come strumentista, sembra operare in questa sessione di registrazione un approfondimento a tutto tondo degli aspetti ritmici e poliritmici di sostanziale radice africana, elaborati nella sua personale chiave jazzistica. Dizzy on the French Riviera, registrato in parte  nell’estate del 1962 al Festival di Antibes, riprende alcuni brani di quella seduta, aggiungendone altri notevoli registrati in sito, come Here it His, di sua composizione, Ole (aka For the Gypsies), dedicata invece al chitarrista ungherese di origine gitana Elek Bacsik, ingaggiato nell’occasione concertistica, oltre ad una più lunga versione di No More Blues, contenente estesi interventi solistici di tromba, sax contralto, piano e chitarra. Da segnalare in New Wave, che vede la chitarra di Bola Sete al posto di Bacsik, una sorprendente versione “latin” del traditional Careless Love, che sfocia poi in improvvisazioni su ritmo swing.

Nella sessione successiva del giugno 1962 registrata esclusivamente dal quintetto, si apprezza l’ardito Mount Olive, una complessa e poliritmica composizione di Schifrin, davvero molto avanzata, nella quale Gillespie mostra tutta la sua abilità di improvvisatore, districandosi sulle sofisticate armonie utilizzate dal compositore argentino.

Al Festival di Monterey di quello stesso anno, Gillespie evidenzia un altro aspetto del suo multiplo interesse per musiche di diversissima provenienza, presentando uno “special program” illustrante le influenze di diverse culture nella musica americana e eseguendo la suite di nuova composizione The New Continent, scritta da Lalo Schifrin e di chiara ispirazione Third Stream, corrente che in quegli anni stava coinvolgendo diversi grandi jazzisti di primo piano. In realtà Gillespie era una sorta di istituzione per quella manifestazione, in quanto fu chiamato dal suo organizzatore, Jimmy Lyons, sin dalla sua prima edizione, nel 1958, dove fu utilizzato come maestro cerimoniere nell’apertura dello show e, in chiusura, in una jam di latin-jazz assieme a Cal Tjader e Mongo Santamaria. Nella già citata edizione del 1961, che lo vide come assoluto protagonista, aveva peraltro già portato due opere prossime alla Third Stream, come Percepitions, scritta da Jay Jay Johnson e Gillespiana sempre di Schifrin, eseguite entrambe, non a caso, da una orchestra diretta da Gunther Schuller.

downloadLa partecipazione a quel festival raggiunse il tratto della consuetudine nell’edizione 1963, documentata discograficamente in Dizzy For President (pubblicato però solo nel 1996) dove si presentò col suo nuovo formidabile quintetto, comprendente Moody e Barron al posto rispettivamente di Wright e Schifrin. Il titolo alludeva ad una campagna pubblicitaria promossa dalla sua agenzia in vista delle elezioni presidenziali e nata quasi per scherzo qualche tempo prima, ma che si trasformò presto in serie intenzioni elettorali, con una campagna per la sua nomination democratica per lo stato della California. Suggerita da Adam Powell, pastore battista e uomo politico newyorkese di discendenza afro-americana eletto al Congresso, e sostenuta da Jean Gleason, la moglie del critico americano Ralph J. Gleason, che assunse il ruolo di consulente pubblicitario, la candidatura intendeva supportare la battaglia per i diritti civili dei neri, portata avanti dalla «Associazione Nazionale per la promozione delle persone di colore» (NAACP). In questo senso, quel 1963 si sarebbe rivelato cruciale. L’anno iniziò, infatti, con il famoso discorso “I Have a Dream” di Martin Luther King al Lincoln Memorial di Washington D.C. per l’anniversario della proclamazione della Emancipazione dalla schiavitù degli afro-americani, ma giusto pochi mesi dopo, il 17 giugno, il presidente Kennedy fu costretto a mandare l’Alabama National Guard a protezione di due studenti di colore, ai quali si voleva impedire di entrare in una università statale. Pochi giorni dopo il leader del suddetto NAACP, Medgar Evers, venne ucciso sull’uscio di casa sua a Jackson, Mississippi. Tre settimane prima dell’inaugurazione del festival, 200.000 americani marciarono su Washington verso la Casa Bianca a sostegno della battaglia per i diritti civili e, infine, il 15 settembre, solo cinque giorni prima dell’inaugurazione del festival, quattro scolari neri furono uccisi e altri diciannove vennero feriti quando una bomba esplose in una chiesa di Birmingham, in Alabama. A fine anno, il 22 novembre, il presidente Kennedy verrà cruentemente assassinato a Dallas, nel Texas.

images-4Gillespie approfittò perciò di quell’edizione del Festival, per portare all’attenzione del pubblico le istanze del NAACP, facendole proprie alla sua maniera, tra il serio e il faceto, come in Vote for Dizzy (un Salt Peanuts in versione elettorale) cantato in compagnia di Jon Hendricks che ne compose il divertentissimo testo[4]. Questo suo aspetto, in qualche modo memore dell’approccio di Louis Armstrong, è stato abbastanza travisato nelle intenzioni, impedendo agli occhi di molti europei di prenderlo sul serio circa il suo impegno civile, dimenticandosi come per gli afro-americani l’aspetto ridanciano e dell’intrattenimento fosse indivisibile anche nella presentazione di così serie problematiche.

r-3562679-1335385526-jpegIl programma musicale portato dal suo gruppo sul palco presentava poi un repertorio misto tra sue già note interpretazioni della Bossa Nova (tra cui una versione straordinariamente estesa ed eccitante di No More Blues e una di Manha de Carnaval con un raffinato assolo di tromba sordinata) e diversi brani del suo ultimo album Something Old, Something New, registrato quell’anno e che è da considerare tra i suoi capolavori assoluti in discografia. Il gruppo è qui formato da solisti di eccezionale livello, come lo stesso Gillespie, allo zenit della maturità tecnica, James Moody in grande spolvero e il giovane brillantissimo Kenny Barron, (suggerito per il gruppo da Tom Mc Intosh, che lo aveva ascoltato in una audizione per il Jazztet di Art Farmer e Benny Golson) che si rivelerà nei decenni successivi uno dei talenti pianistici più rilevanti del post-bop, ancora oggi sulla breccia ed in piena attività. Probabilmente si trattava del gruppo più stimolante per Gillespie dai primi anni del dopoguerra, quando operava con solisti del calibro di Sonny Stitt, Dexter Gordon, Don Byas e Milt Jackson.

Tuttavia, nel periodo in cui quello straordinario quintetto si mosse stabilmente sulla scena musicale(1963-65), l’attenzione della critica era rivolta più al lavoro di trombettisti come Miles Davis e Freddie Hubbard, che si muovevano su coordinate musicali valutate più innovative e rigorose, mentre Gillespie era giudicato troppo eclettico e dispersivo tra Bossa Nova, Afro-Cuban, Calypso, Be-bop e Third Stream,  non riuscendo ad individuare all’interno dei suoi gruppi, in continuo mutamento negli anni immediatamente precedenti, un direttore musicale e uno scrittore di temi stabile, come era, per esempio,  Wayne Shorter nel gruppo di Davis.

Nella registrazione in studio, come suggerito dal titolo dell’album, Il gruppo affronta vecchi cavalli di battaglia (tutte sul lato A del LP), e nuove composizioni del già citato Tom Mc Intosh. I vecchi brani sono suonati con una energia e uno spirito creativo impressionanti e mostrano una tecnica esecutiva perfetta oltre ad una ispirazione solistica raramente raggiunta sia da Gillespie, ma soprattutto da James Moody, che su Round Midnight e Dizzy Atmosphere sforna assoli strepitosi, sia al contralto che al tenore, esemplari sotto l’aspetto della pronuncia e perfezione ritmica, che meriterebbero di essere analizzati. Non è da meno Gillespie, particolarmente in Be-bop e nel bellissimo medley, che collega in modo naturale e raffinato due grandi temi come I Can’t Get Started e ‘Round Midnight. Le composizioni di Mc Intosh invece si distinguono per modernità strutturale e originalità melodica. November Afternoon possiede una sezione A che utilizza il modo eolico con un pedale dorico e un ponte basato su dei “gospel chord changes”. Il tema è di 56 battute ma l’improvvisazione viene operata su un chorus di sole 40. The Cup Bearers è un notevole tema costruito su una particolare struttura di 54 battute, divise in 10-12-10-10-12, mentre The Day After è una deliziosa ballad di 30 battute con una coda. Anche qui il gruppo dà il suo meglio mostrando di saper operare perfettamente anche in contesti musicali che vanno oltre il repertorio classico.

r-678557-1425395867-6717-jpegPiù recentemente, sono stati ripubblicati due dischi registrati dal quintetto in quel periodo per la Philips davvero molto buoni, ma inspiegabilmente trascurati e per troppo tempo colpevolmente fuori catalogo. Si tratta di interpretazioni su musiche tratte da film, rispettivamente: Dizzy Goes Hollywood e, soprattutto, The Cool World, una notevole colonna sonora scritta da Mal Waldron per l’omonimo film indipendente prodotto da  Frederick Wiseman, diretto e co-scritto da Shirley Clarke (il regista del più noto tra i jazzofili, “The Connection”). Gillespie tenne a precisare nella sua autobiografia che il suo ruolo in quel disco fu solo da interprete, nonostante il nervosismo di Waldron, alla sua prima in tale veste, che lo invitava a aggiungere anche qualcosa di suo. Sta di fatto che la musica è per lo più di ottima fattura, sulla scia di opere precedenti scritte da grandi colleghi cui Waldron si era ispirato, come Mingus in Shadows, Ellington in Anatomy of a Murder, John Lewis in No Sun in Venice, Duke Jordan in Les Liasons Dangereuses e, naturalmente, Miles Davis in Ascenseur Pour L’Echafaud. L’esecuzione è davvero eccellente, specie in brani come Enter, PriestDuke on the RunCoolie e il tema che dà il titolo al film. Il gruppo aveva ormai raggiunto un sound proprio e godeva della presenza delle eccezionali prestazioni solistiche in particolare del leader e di James Moody. Dizzy Goes Hollywood è invece un lavoro più disimpegnato, ma comunque efficace, con una scelta di temi tratti da film celeberrimi come ExodusCesare e Cleopatra, l’italianissimo Mondo Cane (More)Lawrence d’ArabiaLolita e Colazione da Tiffany, ma con alcuni spunti interpretativi di eccellenza sui temi di Henri Mancini, Moon River e Days of Wine and Roses, spogliati della loro vena più melensa e proposti in versioni decisamente più ritmate.

r-1060249-1188980781-jpegL’ultima incisione in studio del gruppo che prendiamo qui in esame è della fine ’64, ed è tra le più trascurate della discografia di Gillespie, ma dal punto di vista del suo pluridecennale lavoro di commistione idiomatica, qui oggetto di attenzione, è assai significativa e non andrebbe passata sotto silenzio. Si tratta di Jambo Caribe un disco tutto dedicato ai ritmi caraibici, quelli cioè appartenenti alle ex Indie Occidentali Britanniche (Antigua, Trinidad e Tobago, Bahamas, Barbados, Isole Vergini, Giamaica etc.). La cosa per certi versi sorprendente di questo disco è che il programma prevede quasi tutti brani composti per l’occasione dal membri del quintetto, con eccezione di due del noto compositore di Calypso delle “West Indies”, Joe Willoughby: Poor Joe e Don’t try to keep up with the JonesesDi Gillespie sono: Fiesta MojoJambo e And The She Stopped, mentre un importante contributo compositivo lo danno anche Kenny Barron (Trinidad, Hello e Trinidad, Goodbye) e il bassista, qui anche chitarrista e vocalist, Chris White (Barbados Carnival). Al solito quintetto si aggiunge in diversi brani il percussionista Kansas Fields, al surdo drum. Fiesta Mojo è basato su uno speziato ritmo di calypso che Dizzy aveva captato in un suo viaggio a Nassau, nelle Bahamas e si arricchisce dell’intricato lavoro al flauto di James Moody e di un bell’intervento al piano di Kenny Barron. Chris White invece ricava ispirazione per il suo brano da un semplice refrain ritmico delle isole Barbados, riferendosi al loro caratteristico Carnevale festeggiato ogni anno il 6 giugno ed equivalente al Mardi Gras di New Orleans. Il dialogo tra ballerini “on the road” e musicisti di calypso è uno degli aspetti più stimolanti di quel carnevale. Jambo, che ha il significato in Swahili di “hello”, è invece una fusione tra il bop con i ritmi caraibici e africani e rappresenta, a detta dello stesso Gillespie, “un musical safari dall’Africa e Nord America, entro le West Indies”.

I due brani scritti da Barron dedicati a Trinitad, sono musicalmente tra i più interessanti del disco. Trinidad, Hello è ingegnosamente costruito su una tipica idea ritmica del luogo, con una sezione in ¾ che sfocia nella successiva in 4/4, mentre il finale Trinidad, Goodbye miscela la rumba cubana con lo swing del jazz americano. Alcuni di questi brani verranno riproposti nei successivi appuntamenti concertistici, come nel Festival di Monterey nel settembre1965 e all’Olympia di Parigi nel novembre dello stesso anno (Dizzy Gillespie & His Quintet- Europe 1), entrambi pubblicati postumi, in anni più recenti.

John Birks “Dizzy” Gillespie può essere perciò tranquillamente considerato ben oltre quel genio della tromba e del moderno linguaggio jazzistico che tutti noi conosciamo, ma anche  un precursore di quell’ampio processo di fusione idiomatica in musica che ha fatto e sta facendo giocare al jazz quel ruolo di “filo conduttore”, per dirla con Franco D’Andrea, nelle musiche improvvisate contemporanee. Sarà dunque bene non scordarsene.

Riccardo Facchi

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[1] Tratto da “To be or not to bop”

[2] Tratto da “To be or not to Bop”

[3] Gillespie, sempre nella sua autobiografia sostiene di aver ricevuto da Stan Getz insistenti richieste di cessione di alcuni pezzi di samba, prima della pubblicazione di quel disco.

[4] “Volete un bravo presidente che si dia da fare/Volete un bel governo che vi faccia sganasciare, volete una politica a prova di bomba/ E allora scegliete il presidente con la tromba, gli altri politici quanto fiato san sprecare/Ma Dizzy se non altro lo usa per suonare, spendete i vostri soldi in maniera intelligente/Comprate la spilletta del candidato della gente”.

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