FREE FALL JAZZ

Ci sono luoghi comuni nella critica jazz nostrana che paiono servire più a farsi accettare dal “branco” che a qualificarsi per competenze in materia. Ciò succede per diverse ragioni che qui non possiamo seriamente analizzare, ma la principale delle quali pare andare oltre il jazz ed essere legata alla diffusa abitudine nel nostro paese di conformarsi a certo sentire comune, se non ad un vero e proprio pensiero unico. Curioso atteggiamento questo da mostrare verso una musica che ha fatto storicamente dell’anticonformismo una sua ragion d’essere. La radice autentica del problema temo però che sia da ricercare in un ambiente intorno a questa musica decisamente invecchiato, divenuto troppo ristretto, autoreferenziale e fermo a schemi critici che paiono ormai abbondantemente superati e sostanzialmente fallaci, nonostante si pretenda di farli sembrare ancora “aggiornati”. Nel contempo, si cerca di derubricare punti di vista opposti sul jazz, o semplicemente diversi, per “obsoleti” e “conservatori”, con un significato attribuito a certi termini in realtà ambiguo ed improprio, abusando degli stessi termini rivolti a diversi protagonisti del jazz di ieri e di oggi.

Uno degli esemplari casi per i quali è diventato un “must” fare a gara di gratuite stroncature è certamente quello di Wynton Marsalis, colpevole secondo una certa inflazionata narrazione di conservatorismo e di eccessivo attaccamento ad una tradizione del jazz data ormai per superata, non si sa bene da cosa e su quali basi.

Ora, il personaggio non è esattamente un mister simpatia a livello comunicativo ed è diventato una sorta di divulgatore di un approccio fortemente nazionalistico e conservativo (più che conservatore) verso quella parte della propria tradizione musicale di cui egli ritiene necessario riaffermare le radici e relativa centralità, a fronte di un progressivo allontanamento della musica improvvisata odierna verso direzioni esogene, più che realmente nuove. Sicuramente Marsalis è riuscito anche a costruire nel tempo una sorta di sistema di potere accentrato intorno a sé che può infastidire, peraltro a fronte di qualche merito acquisito (perché non evidenziare allora l’analogo, ben noto ai più, sistema intorno a certi osannati e inflazionati jazzisti nazional-popolari di ben inferiore statura musicale ed artistica?) e che gli rende disponibili mezzi economici ed organizzativi impensabili per altri grandi musicisti. Tuttavia, trattasi di considerazioni che dovrebbero rimanere a margine nel giudizio di merito sul musicista e sulla sua musica, troppe volte sommariamente liquidata.

Francamente, pare legittimo e comprensibile il suo approccio e invece pretestuosa, se non paradossale, l’accusa. E che altro dovrebbe fare, di grazia? Sarebbe come a dire che  un musicista italiano non si possa riferire alla tradizione del melodramma o alla canzone melodica napoletana, o al più recente cantautorato e certo non mi è mai capitato di leggere analoghe feroci critiche su certi discutibili “progetti” realizzati da nostri jazzisti con materiale che peraltro spesso si rivela inadatto all’improvvisazione, se non completamente esogeno alle peculiarità del jazz. Pare quasi che si voglia insegnare ai neri come esserlo, il che risulta francamente intollerabile. Sta di fatto che i pregiudizi su un musicista che, piaccia o meno, è da considerare uno dei jazzisti più rappresentativi degli ultimi decenni, paiono impedire una equilibrata valutazione critica della sua produzione musicale, certo non innovativa, ma in grado di rilasciare anche opere e composizioni di livello superiore e alla portata, credo, di pochissimi altri musicisti presenti sulla scena contemporanea, non solo della musica improvvisata.

Che Marsalis sia un eccellente strumentista e improvvisatore credo sia comunque assodato, bisognerebbe però cominciare anche a dire che si tratta di un non trascurabile compositore di opere a largo respiro, sul genere di quelle, per intenderci, prodotte da Duke Ellington, fatte ovviamente le debite proporzioni. Una di queste opere che andrebbero ascoltate con minori filtri pregiudiziali sul suo conto è per esempio la sua recente Abyssinian Mass. Si tratta di una maestosa e ambiziosa opera compositiva costruita sulla spiritualità gioiosa propria del rito religioso delle chiese africano-americane, ma che allarga la prospettiva musicale anche ad altre fonti musicali decisamente più profane e proprie del jazz. Musica fra l’altro decisamente adatta allo spirito natalizio di questi giorni.

Registrata dal vivo nel 2013 al Lincoln Center, la Abyssinian Mass è stata pensata da Marsalis per commemorare il 200° anniversario della chiesa battista abissina di Harlem, su un incarico ricevuto nel 2008. Si tratta di un lavoro ad ampio respiro contenuto in due CD, che lo presenta impegnato nel tentativo di disegnare le connessioni tra musica sacra e profana, cioè tra cori gospel, blues e ritmi jazz. Sono stati coinvolti nella mastodontica operazione oltre ovviamente alla Jazz at Lincoln Center Orchestra, Damien Sneed e la Chorale Le Chateau. L’opera è stata pensata per accompagnare il servizio liturgico, con i movimenti perciò suddivisi in sezioni associabili alle parti della Messa.

Sono presenti perciò molti assoli strumentali spavaldi ed esuberanti intrecciati a recitativi, sermoni, interventi vocali del coro, accompagnati oltre che dalla ritmica, anche dal tipico festoso battito collettivo delle mani. Brani come Processional We Are on Our Way o Sermon The Unifying Power of Prayer sono indicativi in questo sensomentre altri come Invocation and Chant e l’introduttivo Devotional si fanno apprezzare per la bellezza compositiva messa in campo, oltre che per proprietà idiomatica, peraltro nel caso di Marsalis più che prevedibile. Il risultato complessivo è insomma una sorta di festa sacra, per nulla noiosa, nonostante la discreta lunghezza dell’opera: una composizione ampia per big band jazz, voce solista e coro di ben 70 elementi.

L’album comprende anche un saggio dell’intellettuale Leon Wieseltier e un documentario in bonus DVD che propone spettacoli, interviste e approfondimenti in relazione al processo formativo dell’opera.

Indipendentemente dal tipo di inclinazioni religiose, ci pare che Abyssinian Mass sia un lavoro che si colloca perfettamente al fianco, se non al vertice, di vecchi progetti analoghi del trombettista di New Orleans, come In This House, in This Morning e il vincitore del premio Pulitzer Blood on the Fields . In sintesi, un lavoro importante e da non perdere.
(Riccardo Facchi)

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