FREE FALL JAZZ

Ci sono stati dei momenti nella storia del jazz nei quali certi musicisti hanno perfezionato una tale alchimia da raggiungere risultati musicali persino superiori al contributo, pur eccezionale, dei singoli. Agli appassionati di lunga data sono noti i casi degli Hot Five di Louis Armstrong, o  degli small combos di Benny Goodman, tanto per citare, mentre ai cultori più recenti verranno alla mente probabilmente i quintetti di Miles Davis o il quartetto anni ’60 di John Coltrane. In tutti questi casi si sono prodotti dei capolavori senza tempo che hanno contribuito a rendere così grande questa musica. Molto meno citato è però il caso della musica prodotta dal quintetto di Joe Henderson con Woody Shaw alla tromba, due improvvisatori eccezionali per preparazione, talento e visione, che nel 1970 produssero queste registrazioni capolavoro e che nulla avevano da invidiare a ciò che hanno prodotto i suddetti gruppi, sotto ogni punto di vista. Le ragioni della loro inferiore esposizione potrebbero essere ricercate in diverse direzioni, ma ritengo che una delle principali sia da rilevare nel fatto che per comprendere sino in fondo la loro musica e la relativa maestria di eccelsi improvvisatori, occorra una conoscenza e una comprensione linguistica del jazz più specifica e approfondita rispetto a quelle richieste dai casi eclatanti succitati, forse sul piano comunicativo più diretti ed espliciti. In realtà i due avevano avuto modo di incidere assieme già a metà anni ’60, mettendo a punto la loro intesa in altri dischi meravigliosi come Unity di Larry Young e Cassandranite (anche pubblicato come In The Beginning), un Muse pubblicato a nome di Woody Shaw però solo negli anni ’80.

Il fatto è che la musica prodotta oltre ad essere molto avanzata per l’epoca (per quanto sempre “in the tradition”) e costituire uno splendido esempio del miglior modern mainstream anni ’70, fa comprendere più di altre come il jazz sia effettivamente un linguaggio vero e proprio e non uno stile, o un genere perfettamente riproducibile da chiunque, caratterizzato da alcune specificità di pronuncia imprescindibili che si possono identificare nell’immenso bacino musicale derivato dal blues e in un peculiare approccio ritmico in improvvisazione, proveniente da radici culturali e musicali proprie dei due continenti americani, compresi quindi anche i contributi latini e caraibici. Tutto ciò è rintracciabile in questo Joe Henderson Quintet at The Lighthouse in chiave jazzisticamente aggiornata, in un modo tale che la musica risulta ancora oggi fresca e creativa come poche altre riescono a fare.

Il disco riuniva insieme nel 2004 materiale già pubblicato in precedenza (su If You’re Not Part of the Solution, You’re Part of the Problem e nel box di 8CD  The Milestone Years), a cura del celebre produttore della Milestone Orrin Keepnews, consistente nelle registrazioni live del gruppo tenute al Lighthouse Café di Los Angeles, noto locale di Hermosa Beach di proprietà del bassista “West Coast” Howard Ramsey.

Sia Joe Henderson che Woody Shaw possono essere considerati tra i maggiori innovatori dei loro strumenti emersi rispettivamente dopo Coltrane e Davis e in questa registrazione dimostrano di essere in stato di grazia, dando una superba prova della loro abilità di musicisti e improvvisatori. Il repertorio è per lo più imposto da Henderson e costituito da temi già da lui affrontati, in particolare tra le sue registrazioni Blue Note anni ’60, ma qui sono in versioni davvero originali e per certi versi persino migliori, specie proprio sul piano del contributo solistico dei due fiati, che qui sono pur accompagnati da una sezione ritmica di tutto rispetto costituita dal giovane George Cables al piano elettrico (che rende il suono molto jazz anni ’70), dal bassista Ron McClure, ingaggiato per la presenza costante in area californiana, e il batterista (mancino) Lenny White. In aggiunta si segnala la presenza di Tony Waters alle congas, che si giustifica anche per la presenza di alcuni temi dal sapore “latin”, come Caribbean Fire Dance, Recorda Me e Blue Bossa. Tale caratteristica è ormai onnipresente nel jazz, con buona pace di certi cultori che magari parlano impropriamente di altre “contaminazioni” e pensano ancora a tale aspetto nel jazz come ad una sorta di contributo ”esotico”.

Esercitarsi nella citazione dei singoli brani forse è eccessivo, ma le prestazioni solistiche di Woody Shaw in Recorda Me e di Joe Henderson in Isotope e Invitation, sono di una tale consistenza musicale e di un tale magistero da essere annoverate tra i vertici assoluti nelle rispettive discografie e per i relativi strumenti. A poca distanza si segnalano A Shade of Jade e la splendida versione di ‘Round Midnight. Una menzione a parte spetta a If You’re Not Part of the Solution, You’re Part of the Problem,  per l’evidente intenzione del gruppo di affrontare quei ritmi e suoni “funky” che nel periodo andavano per la maggiore, a conferma per l’ennesima volta di come la separazione dal jazz di musiche più popolari appartenenti allo stesso bacino culturale sia e sia sempre stato privo di necessità e fondamento.
(Riccardo Facchi)

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