La scena della musica improvvisata israeliana da diverso tempo può essere considerata seconda solo a quella americana, ma per ragioni quantitative, non certo per quelle qualitative. Lasciando perdere di enunciare l’infinito numero di jazzisti americani di origine ebrea che hanno grandemente contribuito ad arricchire la storia del jazz, nomi come il trombettista Avishai Cohen con la sorella clarinettista Anat, pianisti come Yonathan Avishai, Shai Maestro, Omer Klein, i contrabbassisti Omer Avital e Avishai Cohen, il chitarrista Gilad Heckselman, il trombonista Rafi Malkiel (che abbiamo potuto apprezzare ad inizio anno, proprio al Manzoni, nell’ottetto “latin” di Arturo O’Farrill), il clarinettista Oran Erkin, tra gli altri, sono già da tempo noti agli appassionati più attenti ed avveduti. Il trombonista Avi Lebovich è uno di questi e si caratterizza per essere, oltre che un eccellente strumentista, un leader conduttore di una big band jazz tutta composta da giovani brillanti musicisti di Israele, con la quale si presenta da alcuni anni. Domenica scorsa l’orchestra si è esibita (per la seconda volta nell’ambito delle stagioni di Aperitivo in concerto, se non erro, ma per la prima volta ascoltata dal sottoscritto live) sul palco del teatro milanese. Lebovich, come molti dei musicisti citati, è tornato a risiedere in Israele dopo una lunga esperienza professionale esercitata negli U.S.A., ovviamente a New York, il che gli ha permesso di assorbire perfettamente l’idioma jazzistico, con particolare riferimento al blues e ai ritmi latini, di cui è possibile cogliere una importante presenza anche nelle proposte di ciascuno dei nomi fatti, mixate ovviamente con influenze mediorientali congiunte con la cultura musicale di propria appartenenza.
Il caso del quarantaquattrenne trombonista e leader (il più anziano nell’orchestra con la quale si è presentato in quest’unica data italiana del tour) è quanto mai rappresentativo. Nato nel 1972, a Yahud, Israele, Lebovich ha iniziato a studiare pianoforte all’età di 9, passando al trombone a 13 anni. Il suo desiderio di espandere i propri orizzonti musicali lo ha portato a New York nel 1992, dove ha frequentato la “New School University” e il “Mannes College of Music”, ma il passaggio fondamentale di carriera è avvenuto grazie ad una telefonata del grande trombonista e big band leader Slide Hampton, che gli chiese nell’occasione di unirsi alla sua band dopo aver avuto modo di ascoltarlo, permettendogli di farsi conoscere ed apprezzare nella affollata scena jazz newyorkese. Durante la permanenza nella Grande Mela, Lebovich ha sviluppato prestigiose collaborazioni con Chik Corea, Bootsy Collins, Phillip Baily (degli Earth, Wind & Fire), Milt Jackson, James Moody, Roy Hargrove, Brad Meldhau, Larry Willis, tra gli altri. Più tardi, Lebovich è diventato un membro della band britannica acid-jazz “ Incognito ”, trascorrendo due anni con quella band.
Nel 1996, ha firmato il suo primo album da solista (Shades of Brass), ritornando solo nel 2003 in Israele. Con il suo ritorno ha fondato l’orchestra di cui oggi parliamo e che si compone di 13 elementi, già peraltro cambiati in buona misura dalla sua formazione iniziale.
Avevo già sentito alcune cose dell’orchestra in passato senza onestamente ricevere particolari impressioni positive e sono andato a spulciare in rete altro materiale prima di assistere al concerto, ma devo dire che l’esibizione di cui Lebovich con i suoi giovani talenti ci ha deliziato è stata tra le cose migliori sue che ho potuto ascoltare sino ad oggi. Si è trattato di un concerto coinvolgente e, cosa che certo non guasta di questi tempi per un jazz tendente troppo spesso al pretenzioso cerebralismo, pure spettacolare e divertente. La sua idea di big band è parsa estremamente aggiornata nella scelta del materiale tematico e nel modo di elaborarlo, fresca negli arrangiamenti, ritmicamente molto elaborati, pur mantenendo forti legami con l’insegnamento di maestri in tale arte come Oliver Nelson e Slide Hampton. L’influenza di quest’ultimo si è colta in diversi momenti nel modo di arrangiare la sezione ottoni, mentre del primo è stata presentata una originalissima versione del capolavoro assoluto Stolen Moments, rimarcando per l’ennesima volta come nel jazz sia più importante il “come” (scusate il bisticcio di parole) del “cosa”, su cui invece troppo spesso si costruiscono tesi critiche improprie per il genere. L’esecuzione della musica, di una certa complessità, ha sfiorato la perfezione, evidenziando un livello medio degli strumentisti estremamente elevato e in possesso di una moderna pronuncia jazzistica. Hanno sorpreso per personalità il giovanissimo chitarrista (diciottenne) Nitzan Bar, che ha preso assoli autorevoli sin dal primo brano, e il diciannovenne dei due trombettisti (di cui mi scuso ma faccio fatica ad identificarne il nome) che però deve completare la sua maturazione su uno strumento così impegnativo. L’intreccio tra la sezione ance e ottoni è stato a tratti superbo, su arrangiamenti scritti da vari componenti dell’orchestra. Tra i sassofonisti ha brillato in assolo il sopranista, mentre sul pezzo annunciato di Avishai Cohen il trombettista più anziano (si fa per dire) ha preso un ottimo assolo pregno di blues feeling. Sorprendente anche la versione “twist” (quasi ballabile, ma non sbracata) del classico di Bobby Timmons Moanin’, mentre in uno dei due bis finali è stato proposto un brano di Quincy Jones. A circa metà esibizione si è presentato come artista ospite il talentuoso pianista e compositore Omer Klein che ha contribuito con un paio di suoi sofisticati temi al programma dell’orchestra, presentandosi anche in versione solitaria in Josephine, brano dal mood decisamente più “romantico” e prossimo a tratti anche al riferimento quasi inevitabile di un Keith Jarrett. Insomma, si è trattato di un concerto con musica varia e stimolante, eseguita da strumentisti motivati, disegnando una più che promettente fresca idea di big band per il presente e per il futuro di questo ambito formale. Un’idea che può stare tranquillamente, per intenderci, tra quelle attualmente più note di una Maria Schneider o di un Darcy James Argue.
(Riccardo Facchi)