FREE FALL JAZZ

Sempre più spesso ci capita di leggere discorsi contraddittori sul jazz, tra sedicenti “puristi” che vorrebbero ingabbiare questa musica in confini ristretti, magari semplicemente legati al proprio gusto personale e chi invece, cercando di darsi una apparenza di persona musicalmente e culturalmente aperta, straparla di “aprirsi alle musiche”, e di musica “evoluta”, se non proprio ormai affrancata dalla propria tradizione e mutata in qualcosa nel quale sarebbe ormai inutile cercare di identificare certe peculiarità stilistiche. Insomma, una musica in cui ciascuno può dire la sua e ormai di proprietà di tutti, secondo uno schema di “universalità linguistica” da tempo divulgato ma a nostro modo di vedere parecchio dubbio.

Tutto e niente oggi sarebbe “jazz”, soprattutto lo afferma chi in testa ha solo idee confuse in materia. Che importa in fondo fare certe distinzioni ormai “out”? Discorso apparentemente possibile, per quanto si possa essere in disaccordo, ma allora occorrerebbe come minimo un po’ di coerenza e spiegare quale sia la ragione per la quale si continua ad utilizzare il termine “jazz” per manifestazioni dove ormai lo si rintraccia col binocolo. Se si vuol far esibire Ludovico Einaudi, tanto per dire, è più che lecito, molto meno lecito è farlo passare in un sedicente calderone jazzistico, ché nella sua musica non ve n’è alcuna traccia, in qualsiasi modo si voglia vederla. Occorrerebbe come minimo un po’ di onestà intellettuale per chi si dichiara operatore culturale, ma tant’è, mi pare siamo in linea con l’andazzo mistificatorio nel Paese in altri ambiti.

In realtà, “jazz” pare essere un brand utile in termini di marketing, utilizzabile a piacimento in barba a qualsiasi forma di coerenza. Soprattutto, guarda caso, quando un contributo culturale ed artistico viene comunemente attribuito ad un’area geografica, il Nord America, e ad una etnia, quella africano-americana, che una certa élite culturale europea viziata da congenito neocolonialismo (e forse anche da latente razzismo), sotto sotto considera espropriabile, in quanto inferiore, al di là di certe apparenze. Non a caso, ultimamente abbondano gli scritti di chi cerca di provare “scientificamente” (?) come il jazz non sia nato in America (oibò…) e come il contributo afro-americano sia solo uno dei tanti, perfettamente equiparabile a quello di altri.

Viviamo peraltro in un paese in piena crisi, non solo economica, che per certi versi ne è la conseguenza, e che orgogliosamente, con un approccio autarchico degno del Ventennio fascista, continua a rivendicare da anni disperatamente un “Made in Italy” sul quale metterebbero illegittimamente le mani altri. Meucci ha inventato il telefono si afferma, non Bell che lo ha brevettato (ma il resto del mondo pare ancora dubbioso in merito), le nostre olive e il nostro olio, il nostro vino, la nostra cucina, la nostra moda etc., guai a chi ce li tocca, ma se c’è da espropriare il jazz dalle mani dei “poveri negri” o da quegli sporchi imperialisti degli americani, non c’è da perderci un istante, visto che c’è chi anche ha cercato di divulgare pure mistificazioni prossime alla cialtroneria come quella del jazz invenzione di italiani, ammesso e non concesso che si possa culturalmente identificare un italo-americano da diverse generazioni negli U.S.A. con un italiano, cosa di cui dubito moltissimo.

Non vorrei scadere nella banalità, ma mi domando seriamente se chi sostiene certe tesi più o meno documentate fra una pizza napoletana fatta da un napoletano e una fatta da un cinese di Yue Yang con ingredienti in loco preferirebbe la seconda (tanto ormai è materia “universale”). Io l’esperienza l’ho fatta in Cina e non vi dico…Oppure, provate a dire ad un bergamasco di assaggiare la polenta bergamasca fatta in India anziché a Valbondione, e mi fermo qui con eventuali paradossi, mica poi tanto tali. Un conto è l’inevitabile scambio culturale favorito anche dagli effetti attuali della globalizzazione, un altro è negare i contributi etnici e le relative radici culturali.

Pare, dunque e comunque, secondo una certa vulgata odierna che il jazz non sia attribuibile in gran parte alla comunità afro-americana e che esistano peculiarità specifiche ad essa legate. Ne prendo atto. Dunque ci saremmo sbagliati in tanti, e certo non basta constatare che in un eventuale lista di grandi innovatori di questa musica si farebbe fatica a ficcare un bianco nella prima decina di nomi snocciolabili, ma tanto sarebbe. Apprendo poi che c’è chi non distinguerebbe il canto di un afroamericano da quello di un bianco americano o europeo, eppure in 40 anni di ascolto non mi è mai capitato di confondermi, sottolineo mai, ma capisco che chi pensa che il Soul di Cristina Zavalloni sia lo stesso di Aretha Franklin abbia qualche problemino di ricezione uditiva. E che dire del blues? Pare che sarebbero in grado di suonarlo esattamente allo stesso modo Ray Charles e, che so,  Giorgio Gaslini e magari lo sostiene chi ti descrive il blues come una sola e semplice struttura armonica nella tipica progressione tonica-sottodominante-dominante distribuita su dodici misure. Il che basterebbe a spiegare quasi tutto e a farti pensare che il tale fine musicologo non ci ha capito una cippa del blues e della fondamentale importanza del suo peculiare elemento emotivo-espressivo. E non parliamo della imprescindibile radice ritmica e poliritmica del jazz di comprovata provenienza africana. Di certo Ludovico Einaudi non sa nemmeno dove sta di casa il ritmo e a questo punto se lui può stare in un festival del Jazz perché non chiamare anche Orietta Berti ad esibirsi? Non vedo grandi differenze a quel punto.
(Riccardo Facchi)

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