FREE FALL JAZZ

Come tutti i musicisti che hanno saputo ottenere un grande successo commerciale in prossimità o a latere del jazz, Pat Metheny è sempre ascoltato e giudicato con un certo sospetto dagli appassionati più intransigenti, se non con vero e proprio pregiudizio, anche quando il tempo di quel successo, ottenuto nel suo caso con il celeberrimo Pat Metheny Group (PMG), è già passato da un pezzo e sarebbe oggi possibile valutare la sua musica e la sua opera, anche attuale, con maggiore distacco ed equilibrio critico, anche dai cosiddetti “puristi”. Chi come il sottoscritto prese ai tempi una reale cotta giovanile per la musica di quel gruppo, non può non riconoscere che quel sound, al tempo considerato così fresco e nuovo, risulta oggi piuttosto datato.

Tuttavia, come si usa dire, occorrerebbe evitare di “buttare il bambino con l’acqua sporca” e domandarsi se le ragioni di quel successo, durato peraltro più di un ventennio, fossero solo dovute ad una moda effimera o vi fossero anche motivazioni musicali ben precise. Personalmente propendo più per questa seconda ipotesi, poiché semplificare il discorso derubricando la musica di quel gruppo per essere stata solo di facile presa sarebbe un banale errore di valutazione.

In realtà, Metheny con il fido Lyle Mays ha al tempo costruito un book di composizioni originali, non così semplici sul piano formale, sfruttando una vena melodica di rado riscontrabile nel jazz più recente. Se il sound di quel gruppo è “invecchiato” abbastanza rapidamente, non così si può dire di diverse composizioni che paiono reggere il tempo più che degnamente, semplicemente perché sono musicalmente valide, al di là di ogni altra considerazione critica. Non è casuale infatti che Metheny proponga qui un medley chitarristico nel quale recupera e sintetizza un campionario di alcune di quelle composizioni, mettendone in luce la loro intrinseca bellezza melodica. D’altro canto la presenza della voce sassofonistica di Chris Potter nell’attuale progetto Unity, in un ruolo solistico sostitutivo a quello che era appartenuto a Lyle Mays nel PMG, richiama e riprende anche l’esperienza fatta all’epoca in dischi come 80/81, che vedeva la presenza dei sax di Michael Brecker e Dewey Redman. La riproposizione di brani presenti in quel disco come Two Folk Songs è in questo senso chiara ed eloquente. In realtà, altri elementi, come l’utilizzo dell’Orchestrion, suggerirebbero la generalizzazione del concetto appena esposto, ritenendo la scelta del materiale per questa registrazione come una ricapitolazione e rielaborazione delle diverse esperienze fatte da Metheny in carriera, integrandole nel suo più recente progetto che prevede la presenza di eccellenti strumentisti come Ben Williams al contrabbasso, Antonio Sanchez alla batteria, Giulio Carmassi, al pianoforte, flicorno, synth e voce, oltre a quella già citata di Potter ai sax e clarinetto basso.

Il materiale su questo doppio CD The Unity Sessions è tratto da una performance filmata con il Pat Metheny Unity Group che è stata già  pubblicata in DVD nel 2015. Il set comprende 13 canzoni di Metheny, una co-scritta con Ornette Coleman, e Cherokee, canzone di Ray Noble divenuta “standard-palestra” per qualsiasi improvvisatore jazz degno di rispetto, da Charlie Parker in poi.

In un certo senso il disco non propone alcunché di nuovo e in qualche modo riafferma le linee stilistiche tipiche di Metheny già tracciate in passato, ma non è nemmeno una celebrazione nostalgica di un tempo che fu. Non tutto il materiale propone lo stesso interesse musicale e alcune cose come l’accenno ad un free colemaniano in Genealogy paiono una presenza un po’ forzata anche se coerente col discorso riepilogativo sopra accennato, ma in ogni caso è sempre apprezzabile lo sforzo compositivo di sviluppo formale su brani di una certa lunghezza costruiti su un intreccio metrico complesso. Ciò è rilevabile ad esempio in On Day OneBorn o Rise Up, tre lunghe suites tutte provenienti dal precedente KIN (←→) del 2014, che ricordano da vicino la costruzione, per quanto aggiornata, del sound raggiunto dal PMG, indipendentemente dalla alternativa presenza di Chris Potter. D’altronde lo stile compositivo di Metheny è ben definito e certo non improvvisamente mutabile alla considerevole età raggiunta di sessantadue anni.
(Riccardo Facchi)

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