FREE FALL JAZZ

A volte mi domando cosa sarebbe successo alla Cappella Sistina se il Buonarroti nel ricevere l’incarico di ridipingerla avesse dovuto subire dal suo finanziatore, Papa Giulio II, serie ingerenze su come svolgerlo. Ben si sa che il mecenatismo ha avuto un ruolo decisivo nella produzione della grande arte rinascimentale e il paragone, apparentemente paradossale, mi è venuto in mente mentre ascoltavo questo disco ben suonato ma inaspettatamente noioso di Avishai Cohen, trombettista israeliano ma operativo a New York, giustamente tra i più acclamati sulla scena jazzistica contemporanea e recentemente approdato alla scuderia ECM di Manfred Eicher. Il noto produttore tedesco sembra infatti avere la capacità di far suonare qualsiasi musicista che ingaggi allo stesso modo, secondo una estetica che sembra richiedere al musicista di turno più o meno volutamente, o semplicemente in forma indotta (non saprei stabilire precisamente in questo caso), di conformarsi ad un “suono” ben preciso, proprio della linea che identifica da anni la casa discografica stessa. Ora, non è che si pretenda di avere musicisti “ribelli” contro il sistema produttivo intorno alla musica, peraltro già fortemente debilitato, in stile Charles Mingus, o la presenza di spirito e la personalità imposta ai produttori da un Miles Davis, non sono più i tempi, ma un minimo di impronta personale  del musicista di turno sarebbe gradita.

Il produttore che pare utilizzare l’artista come mezzo per esprimere artisticamente se stesso, verrebbe da pensare, e non il viceversa, come dovrebbe essere, ma rimango dell’idea che Giulio II non avrebbe potuto far meglio di Michelangelo. Più in generale, sembra di assistere alla ormai epocale prevalenza del marketing sull’arte, con il marketing che diviene esso stesso arte e che ha il difetto (o il pregio, per gli amanti del genere) di uniformare, nel caso specifico, il disco a tanti altri prodotti recenti della casa tedesca, secondo un mood esecutivo elegiaco, ormai standardizzato, monocromatico ma abbastanza soporifero, perché sostanzialmente privo di nerbo ritmico in ogni traccia proposta. Sembra quasi di ascoltare una delle tante incisioni recenti di Enrico Rava, solo suonata meglio e da uno strumentista più giovane e capace.

Se vi sembrerà che sto esagerando (può anche essere…) suggerirei comunque di ascoltare per confronto i lavori precedenti, davvero notevoli, di Avishai Cohen, sia come leader che come sideman, per rendersi conto del rapido salto espressivo avvenuto e vi sorgerà spontaneamente la domanda: “Cosa può aver prodotto nel trombettista la necessità di un cambio stilistico così repentino?” Certo, occorre anche tenere conto delle oneste motivazioni del musicista, di cui non dubito. Infatti, Cohen ha composto le canzoni sulla scia della morte del padre e il dolore del trombettista sembra permeare tutto il disco, ma dubito comunque che basti come unica motivazione. I temi sono stati composti più di sei mesi dopo la morte del padre, avvenuta nel novembre del 2014. Non si tratta di una raccolta di canti funebri, ma si mantiene uno stato d’animo contemplativo in tutti i titoli che contribuisce alla sensazione della suddetta uniformità esecutiva. L’iniziale Life and Death, suonata con la sordina in stile Miles Davis, pare esemplare e certo il tema della morte non è nuovo nelle incisioni del jazz (si pensi anche solo a Death and the Flower del quartetto americano di Keith Jarrett, o al più recente No Beginning no End di Kenny Werner, inciso in occasione della dolorosa perdita della figlia), ma in altri casi è stato affrontato in modalità espressive più variegate. Il brano che pare mostrare una maggiore articolazione espressiva è forse il lungo Dream Like a Child, ma poi si ritorna nelle pastoie della monotonia e francamente comincio ad avere in uggia l’uso, ormai abusato, quasi solo coloristico della batteria.

Non si tratta comunque di un disco mal suonato, tutt’altro, visto che la formazione prevede tra l’altro una eccellente ma a mio avviso sottoutilizzata sezione ritmica, composta da strumentisti stimabili e di variegata esperienza come Eric Revis al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Immagino inoltre che il disco possa essere piaciuto a chi si identifica nello stile della acclamata casa discografica tedesca, ma rimango convinto che musica come questa duri e durerà il tempo di un refolo di vento in una afosa giornata estiva. Ai posteri l’ardua sentenza.
(Riccardo Facchi)

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