FREE FALL JAZZ

Se c’è un aspetto fondamentale del jazz è quello di cultura orale, di continuum da estendere, tramandare e rimembrare in un eterno processo di dialogo fra presente e passato per disegnare il futuro. In quest’ottica, il titolo del nuovo disco di Aaron Diehl, ‘Space Time Continuum’ appare come una dichiarazione d’intenti, giusto in caso qualcuno nutrisse dei dubbi. Diehl organizza infatti un programma estremamente vario, sia dal punto di vista stilistico che di organico, con lo scopo di unificare tanto le generazioni quanto gli orizzonti stilistici, dimostrandone l’intrinseca attualità. Il trio base, completato dal basso di David Wong e dalla batteria di Quincy Davis, può essere ascoltato su tre brani: un’incisiva, dinamica versione di ‘Uranus’, l’aggraziata ‘Santa Maria’ dai colori e ritmi latini e l’ipercinetica ‘Broadway Boogie Woogie’, un boogie ricco di ostacoli ritmici superati in scioltezza. Poi troviamo una serie di ospiti, giovani e meno giovani, a seconda del brano. Il venerabile baritonista Joe Temperley fa sentire la sua gigantesca voce in ‘The Steadfast Titan’, un blues rarefatto e disteso che riecheggia certe atmosfere soffuse care a Ellington. Il giovane tenorista Stephen Riley, dal suono soffiato e vibrante nello stile di Lucky Thompson, Don Byas e Benny Golson, si destreggia alla grande in ‘Flux Capacitor’ (grande titolo, anzi… grande Giove!), un brano ingannevolmente semplice dove le linee melodiche del sax viaggiano su un moto armonico incerto, con repentini passaggi di ritmo da swing a funk, come pure nel bolero ‘Kat’s Dance’, per soli sax e piano, prima crepuscolare e via via più accidentato. E Benny Golson medesimo, ancora in gran forma, è presente in ben due brani, le lunghe ‘Organic Consequence’ (un vero e proprio manuale di trattamento della melodia, con tema arioso e malinconico) e ‘Space, Time, Continuum’ (summa di un secolo di jazz, dalle tinte roots, ospite la bella voce di Charenee Wade), assieme al giovane ed esplosivo trombettista Bruce Harris.

Aaron Diehl, musicista praticamente ignorato in Italia, ha realizzato un album maturo e interessante, perfettamente riuscito nel dimostrare l’assunto di partenza, ovvero il jazz come continuità.
(Negrodeath)

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