FREE FALL JAZZ

Questo articolo dedicato alla diffusissima influenza sul jazz dei ritmi latini (con sostanziale esclusione della componente brasiliana che meriterebbe per l’importanza indubbia un saggio a sé), e in particolare di quella afro-cubana, è la revisione e l’ampliamento di quello già comparso un paio di anni fa sulle colonne del portale Tracce di Jazz. Sono stati aggiunti alcuni protagonisti di cui mi ero completamente scordato (sono sicuro che ne mancherà ancora qualcuno) e che andavano come minimo citati. Inoltre in  coda all’articolo ho ampliato il discorso sul “ramo cubano” cercando di dare un minimo di ricostruzione storica circa i protagonisti della musica cubana anche ben prima della fusione col jazz. Anche in questo caso, come per il saggio dedicato a Stevie Wonder, si tratta in realtà di un work in progress che prelude ad altri possibili futuri ampliamenti. L’aggiunta di molti link musicali permette, per chi lo volesse, di associare l’ascolto alla lettura. Per favorire quest’ultima si è pensato di dividere il lungo scritto in due parti, di cui la seconda verrà pubblicata a seguire.

R.F.

Alla seconda parte

Il jazz è una musica che nel suo percorso si è in qualche modo “globalizzata”, mostrando una peculiare capacità di espandersi, fagocitando ed elaborando materiali musicali dalle più varie provenienze, modificandosi progressivamente anche in funzione del luogo geografico in cui si è venuto a sviluppare, inglobando, almeno in parte, le relative tradizioni culturali, caratterizzandosi quindi per una interessante forma di sincretismo musicale.

Tutto ciò utilizzando come principale collante, o fattore comune, il “tool” dell’improvvisazione.  Questa capacità del jazz, che potremmo definire integrativa, o inclusiva, di assimilare una così vasta messe di materiale, si spiega probabilmente con certe caratteristiche intrinseche del luogo nel quale è nato, ossia quell’America che, nei secoli addietro, si è rivelata luogo storico di incontro di etnie e culture molto diverse tra loro, arrivando ad elaborare linguaggi innovativi, non solo musicali, in una modalità che ha fatto da modello utilizzabile per successivi cicli culturali.

L’esportazione e l’elaborazione del linguaggio jazzistico in Europa negli ultimi decenni, dapprima inevitabilmente assai prossimo ai modelli americani, successivamente sempre più indipendente e affrancato da essi, ha portato molti a ritenere, nell’ottica suddetta, certa musica improvvisata europea (così personalmente preferisco denominarla e successivamente ne spiego il perché) ad essere considerata come una sua normale evoluzione. Di più, oggi molti critici e musicologi (europei, ma non solo) ritengono che gli sviluppi più interessanti del jazz siano ormai identificabili in Europa e l’America solo depositaria di una tradizione “mainstream” ormai sostanzialmente superata, se non addirittura obsoleta. Insomma, il jazz è “qui ed ora”, in un luogo di grande tradizione musicale, nel quale, forse inconsciamente si sottintende, si può fare solo meglio ciò che altri hanno ideato. Non casualmente oggi si assiste, in parallelo, alla ricerca di improbabili paternità europee (addirittura italiche, dando retta a certi guitti da avanspettacolo improvvisatisi in ruoli che sin troppo chiaramente non gli competono) negando in un solo colpo verità che parevano ormai assodate circa il contributo determinante in particolare dell’etnia africana-americana (anche se non l’unico) relativamente alla nascita e sviluppo del Jazz. Ora, il problema è che l’improvvisazione non è elemento caratterizzante tale forma musicale, in quanto un altro è davvero indispensabile a definirla, ossia, la presenza di un certo tipo di elaborazione ritmica, che, in molto cosiddetto “jazz europeo” che va oggi per la maggiore, è sempre meno avvertibile, creando più una deriva jazzistica che una sua reale creativa evoluzione. Tralasciando per un attimo l’evidente progressivo prosciugamento in gran parte della musica improvvisata europea odierna delle radici fondanti tipicamente afro-americane, quelle per intenderci del blues, degli shouts, dei field hollers, del work song e degli spirituals (per certi versi cosa comprensibile, in quanto componenti esogene alla propria tradizione musicale), le componenti ritmiche, di indiscutibile radice africana, che per oltre un secolo hanno caratterizzato quella musica che va sotto il nome di “Jazz” rendendola così interessante e innovativa, vengono per lo più sterilizzate, se non addirittura rese assenti, creando di fatto una musica derivata, più o meno improvvisata, molto diversa, la cui consistenza è peraltro ancora tutta da verificare.

Tra queste componenti ritmiche di origine africana riscontrabili in molto jazz e che sono da considerare non meno importanti di altre ben note, si tende spesso a trascurare quelle provenienti dalla zona caraibica, storicamente attraversata da una grossa fetta dei flussi di schiavi deportati dall’Africa tra il XVI e il XVIII secolo: stiamo parlando in particolare dei ritmi e delle musiche di provenienza afro-cubana. Ciò è peraltro ben strano, in quanto studi approfonditi hanno dimostrato i forti legami tra le musiche de l’Avana e quelle di New Orleans e, conseguentemente, tra la musica afro-cubana e quella afro-americana. La musica afro-americana ha iniziato, infatti, a incorporare ritmi e motivi musicali afro-cubani ben prima della nascita del Jazz, in un processo avvenuto, come si capisce da quanto accennato, tra la fine del XVIII secolo e tutto il XIX, con le danze cubane e la cosiddetta “habanera”. Il ritmo di habanera (noto anche come congo,  tango-congo, o tango) può essere considerato come una combinazione di tresillo e controtempo. Tresillo è una parola spagnola che significa ‘”tripletta”, dove la figura di tre note uguali suonate nello stesso arco di tempo normalmente occupato da due note viene utilizzata come ostinato dalla mano sinistra sul pianoforte. L’habanera è stata la prima musica scritta a basarsi ritmicamente su un motivo africano. Per l’oltre quarto di secolo in cui il Cakewalk , il Ragtime e il proto- jazz si stavano formando e sviluppando, l’habanera è stata parte di una certa rilevanza nella musica popolare afro-americana. I primi gruppi jazz di New Orleans l’avevano nel loro repertorio. Musicisti provenienti da l’Avana  pare prendessero il traghetto due volte al giorno verso New Orleans, permettendone così il progressivo radicamento nel terreno musicalmente fertile della Crescent City. A tal proposito, non si può non citare  una figura chiave dell’Ottocento musicale americano, peraltro nativo proprio di tale città, come Louis Moreau Gottschalk, che passò non a caso un periodo della sua vita a l’Avana e di cui si parlerà nell’ultima parte di questo articolo, dedicata più specificamente alla musica cubana.

John Storm Roberts, etnomusicologo statunitense di origine britannica, e studioso di musica latina e africana (indispensabile il suo trattato in materia “The Impact of Latin American Music on the United States“), affermava che l’habanera raggiunse gli U.S.A. 20 anni prima che il primo rag fosse pubblicato.  Scott Joplin con Solace, (del 1908), notissimo brano che ha fatto anche parte della colonna sonora del film “The Sting”, portò il ragtime nel territorio della danza cubana ed è considerato una habanera. W.C. Handy incluse questo ritmo nel suo celeberrimo St. Louis Blues (1914), che ha una sezione con presente una linea di basso habanera/tresillo, e qualcosa è presente anche in altre sue  composizioni come Memphis Blues e Beale Street BluesJelly Roll Morton considerava il tresillo/habanera (che lui definiva col termine di “spanish tinge”) come un ingrediente essenziale del jazz.  Tale ritmo può essere infatti ascoltato in alcune sue composizioni. Ad  esempio, nella sua mano sinistra su temi come The Crave, del 1910 e registrato da Morton nel 1938,  o Mamanita, registrato in piano solo nel 1924. Nella parte a voce della registrazione con  suoi esempi musicali alla Library of Congress del 1938 (al vol. 8 per chi ancora possiede gli LP) Morton afferma: Now in one of my earliest tunes, “New Orleans Blues,” you can notice the Spanish tinge. In fact, if you can’t manage to put tinges of Spanish in your tunes, you will never be able to get the right seasoning, I call it, for jazz”.

Le affinità e l’intreccio del Jazz con la musica cubana certo non si fermano alla citazione del ritmo di tresillo e dell’habanera, o meglio, da solo non basterebbe certo a definire quel genere che, più avanti,  qualche decennio dopo, verrà definito con  il nome di Afro-Cuban Jazz, negli anni ‘40 e “Latin Jazz”, dagli anni ’50 in poi. Innanzitutto si può affermare che una matrice comune può essere individuata nel diffuso concetto di “call and response”, che è disseminato un po’ ovunque nella musica afro-americana, non solo nel jazz,  e che nella forma cubana è spesso rintracciabile nella cosiddetta “Descarga”, una sorta di jam session cubana. Inoltre, il principale ritmo di riferimento per tale ambito musicale, in grado di definirne la peculiarità, è in realtà la clave. Confrontando la musica di New Orleans , con la musica di Cuba , Wynton Marsalis osservava che il tresillo è la “clave” New Orleans.  Anche se tecnicamente, il modello è solo mezza clave. Il concetto di clave (da non confondersi con “ las claves”, ossia lo strumento che produce tale figura ritmica) riveste una particolare importanza per tutti i musicisti che affrontano l’interpretazione della musica latina. Le claves, come strumento, nascono a Cuba ed erano due corti paletti di legno duro che ben si prestavano, date le loro caratteristiche sonore, ad essere utilizzate dai creoli presenti nel porto de l’Avana come strumento musicale, derivando probabilmente dall’uso improprio delle caviglie marinare. Una si tiene appoggiata nella mano chiusa a coppa che funge da cassa armonica e l’altra vi viene fatta sbattere nel punto mediano con un movimento morbido e rilassato. Il suono è acuto e penetrante, facilmente udibile in qualsiasi contesto sonoro.

La clave, invece, è un pattern di due battute: una sincopata, composta di tre colpi, ed una lineare di soli due. Questa suddivisione asimmetrica e binaria del tempo caratterizza fortemente la musica cubana e latina in generale, in quanto tutti gli elementi costitutivi di un brano musicale sono sempre perfettamente correlati con la clave e si appoggiano o si intersecano sui suoi accenti. La battuta sincopata, considerata forte, è sempre contrapposta a quella lineare, o debole, ed il loro accoppiamento crea un continuo alternarsi di tensione e rilassamento ritmico della musica.Dal punto di vista pratico è però ben più importante la direzione della clave. Con direzione della clave si intende definire  quale delle due battute, forte o debole, venga per prima, dato per assunto che in un brano musicale la clave non si interrompe mai dall’inizio alla fine. Detto in parole più semplici un brano musicale può iniziare o con la battuta forte, o con quella debole. Proprio per questo si parla spesso di clave 3/2 e clave 2/3, o clave rovescia. Con queste due indicazioni numeriche si intende definire proprio la direzione della clave. Clave 3/2 significa che il brano inizia con la battuta forte (3 colpi); clave 2/3 significa che il brano inizia con la battuta debole (2 colpi). I tipi di clave più utilizzati sono: la clave di Son, la clave di Rumba e per i tempi ternari composti (per lo più 6/8) la clave abakwà, tutte del tipo, forte-debole, 3/2 e con minime variazioni nella struttura ritmica del pattern. La più conosciuta ed utilizzata è la Clave di Son, senz’altro regina della musica popolare e, al giorno d’oggi, anche quella che dà vita alla cosiddetta “Salsa”.
Il rispetto della direzione di clave e della relativa metrica da parte di vocalist, strumentisti e solisti è fondamentale. Nella musica latina tutto si poggia sulla clave, melodia compresa. Se qualche musicista rovescia il proprio pattern, invertendo l’ordine delle due misure si troverà  “traversado”, o “cruzado”, ossia rovesciato, rispetto agli altri componenti della band, con effetto deleterio di fastidio da parte di tutti, ascoltatori (o ballerini) compresi. Una cosa analoga a quella che può succedere con lo swing se si invertono i tempi degli accenti in battere con quelli in levare, cosa che spesso si nota quando si vede battere il tempo a chi non ha dimestichezza con tale concetto.

L’influenza cubana è evidente in diversi brani jazz composti prima del 1940, ma ritmicamente, sono per lo più basati su motivi come il tresillo e non contengono ancora una palese struttura di clave. Questo intendendo brani di nuova composizione, poiché le interpretazioni ad esempio di The Peanut Vendor (El Manicero) di Louis Armstrong nel 1930 e di Duke Ellington nel 1931 sono saldamente in clave. Il portoricano Juan Tizol (1900-1984), trombonista e voce inconfondibile dell’orchestra di Duke Ellington dal 1929 sino al 1943, si distinse come compositore di alcuni importanti brani dal profumo latino ma ancora non in clave: Moonlight Fiesta nel 1935 (ovvero, Porto Rican Chaos), Caravan, nel 1936 e Conga Brava  nel 1940. Caravan, in particolare, è un esempio di una prima composizione jazz pre-latina.

Da considerare uno dei padri fondatori dell’Afro-cuban jazz e figura centrale in tale ambito è invece il trombettista cubano Mario Bauzá (1911-1993). La sua formazione musicale, unita ad una profonda conoscenza della musica tradizionale cubana e l’amore per il jazz, gli hanno permesso di giocare un ruolo chiave nel processo di integrazione della musica afro-cubana nel jazz nel primi anni ‘40. Cresciuto a L’Avana, Bauzà ha iniziato la formazione musicale formale da bambino, presso l’Accademia Comunale di Cuba, sviluppando una sufficiente abilità al clarinetto e all’oboe tale da poter suonare nella Philharmonic Orchestra all’età di nove anni. Ha avuto la possibilità di studiare con alcuni dei migliori musicisti cubani, tra cui Antonio Maria Romeu e Lázaro Herrera. A 19 anni, si trasferisce a New York, passando allo studio della tromba.

New York è una città portuale, come New Orleans“, dice Bobby Sanabria, che ha lavorato con Bauzá per otto anni, ”ma è una metropoli, dove i ritmi di Cuba hanno prosperato nella Spanish Harlem (quartiere East Harlem, El Barrio). Lì, cubani e portoricani hanno contribuito a diffondere la musica al South Bronx e oltre. E non sarebbe potuto accadere in qualsiasi altro luogoCosì il ramo principale del continuum afro-cuban jazz, latin jazz, non è nato a Cuba, ma a New York City. “ La New York degli anni ‘30 stava ballando con la musica delle big band Swing. Bauzá si adattò facilmente a quello stile, suonando con diversi gruppi prima di entrare nella famosa band del batterista Chick Webb nel 1933. Webb lo spinse a sfruttare appieno il suo potenziale, nominandolo direttore musicale per cinque anni.  Durante la collaborazione con Webb, Bauzá strinse amicizia con il giovane Dizzy Gillespie, che diverrà più avanti un protagonista assoluto in ambito di Afro-cuban jazz (o “Cu-bop”, come anche venne chiamato). Nel 1938 Bauzá si unirà all’orchestra di Cab Calloway, sino al 1940, convincendolo anche ad assumere il giovane Dizzy nella band, con il quale ebbe un proficuo scambio di idee e al quale insegnerà, a detta dello stesso Gillespie, i pattern ritmici afro-cubani, che saranno poi messi a frutto da Dizzy durante tutto il corso della sua carriera. Ne sono documento brani registrati nell’ottobre 1939 per l’orchestra di Calloway come Chili con CongaVuelva e Goin’ Conga nel 1940.

Altra figura importante per quella nuova musica in formazione è stata quella del cantante cubano Francisco Raúl Gutiérrez Grillo, o semplicemente, Frank Grillo (1907– 1984), meglio noto come Machito. Trasferitosi negli States già nel 1937, organizzò agli inizi del 1940 una sua big band afro-cubana, assumendo proprio Bauzá in qualità di direttore musicale. Bauzá è il musicista/jazzista che introdusse di fatto il concetto di clave 3-2/2-3 nell’ambiente musicale newyorkese. Bandleader e arrangiatore ricercato, egli può di fatto essere considerato il creatore in quegli anni dell’Afro-cuban Jazz, fondendo arrangiamenti jazz con i ritmi percussivi afro-cubani. All’interno di tale formazione, Bauzá ha volutamente mantenuto un equilibrio tra musicisti latini e jazz, al fine di realizzare un adeguato mix di esperienze musicali da fondere, avendo avuto l’esperienza unica di padroneggiare entrambi i linguaggi musicali, ma gli ci è voluto tempo per insegnare ai musicisti jazz della band di Machito come suonare sulla clave. La band di Machito ha portato diverse innovazioni in ambito musicale tra cui si possono segnalare:

  • essere la prima band a utilizzare il trio strumentale congas, bongos, timbales in quella che verrà considerata da quel momento la batteria standard nella musica afro-cubana.  Si noti rispetto alla classica batteria jazz la totale assenza di piatti;
  • essere la prima big band ad esplorare dal punto di vista ritmico afro-cubano, composizioni estese (ad esempio, “La Afro-Cuban Jazz Suite” di Chico O’Farrill);
  • essere la prima band autenticamente multi-razziale negli Stati Uniti;
  • essere un banco di prova per lo scambio di esperienze musicali, composizioni e arrangiamenti basati sulla fusione tra jazz e musica afro-cubana, formando musicisti capaci di suonare in entrambi i contesti, in un modo flessibile che non era esistito sino a quel momento. In un certo senso si è rivoluzionato completamente il modo sia di far musica da ballo afro-cubana, che il modo di suonare il jazz sino a quel momento. Il Dizzy Gillespie di Manteca e Tin Tin Deo, per capirci, forse non sarebbe esistito se non fosse stato per personaggi come Mario Bauzá, così come, d’altra parte, il genio musicale di Tito Puente, non si sarebbe sviluppato nel modo in cui lo ha fatto negli anni successivi.

Per consenso generale tra musicisti e musicologi, il primo brano jazz originale a basarsi apertamente sulla clave è stato Tanga, la cui prima versione fu esibita dal vivo il 29 Maggio 1943 al Park Palace Ballroom, di N.Y.C. all’incrocio tra la 110th Street e la 5th Avenue. Si tratta di uno spontaneo descarga cubano composto appunto da  Mario Bauzá e eseguito da Machito e dai suoi musicisti afro-cubani. Una versione registrata tra la fine del 1948 e inizio 1949 su iniziativa di Norman Granz, proprietario della Clef/Verve, con presenti jazzisti come Charlie Parker e Flip Phillips, è fruibile insieme ad altro importantissimo materiale in un doppio LP summa dello stato dell’arte in materia, dal titolo manifesto “Afro-Cuban Jazz”, appunto. Una raccolta di diverso materiale, parte del quale inciso inizialmente su dischi a 78 giri da dodici pollici, e messo a nome dello stesso Machito (con naturalmente presenti Bauzá e l’orchestra), di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, coinvolti appieno in qualità di solisti nel progetto, ma che porta in realtà il contributo centrale di un’altra figura importantissima dell’Afro-Cuban, ossia il misconosciuto e sottovalutato compositore e arrangiatore Arturo “Chico” O’ Farrill (1921-2001).

Nato a Cuba da padre irlandese e madre tedesca, O’Farrill scopre il jazz per big band durante la frequentazione di un collegio militare in Florida, dove impara a suonare la tromba. Al ritorno a L’Avana inizia a studiare musica classica con Felix Guerrero presso il Conservatorio de L’Avana e a suonare in nei locali della città, accanto a figure come Isidro Perez e Armando Romeu. Già intorno ai 20 anni, si rivela un fecondo compositore per orchestra, con opere come Symphony n°1 (1944), Winds Quintet (1945) e Saxophone Quartet n°1 (1948-49), che tuttavia rimangono misteriosamente non pubblicate. Nel 1948, si trasferisce a New York City , dove continua i suoi studi di musica classica con Stefan Wolpe , Hall Overton ed altri presso la Juilliard School, iniziando a seguire la scena jazz nel tempo libero. Presto ha l’occasione di lavorare come arrangiatore per Benny Goodman , scrivendo un Undercurrent Blues e Shishkabop, nel breve periodo di approccio al bebop di Goodman. Nel 1950 scrive Cuban Episode per l’orchestra di Stan Kenton, ma soprattutto scrive per l’orchestra di Machito la Afro-Cuban (Jazz) Suite. Era decisamente la scelta più logica per comporre una suite del genere, in quanto O’Farrill incarnava la figura del musicista che conosceva i ritmi afro-cubani dalla nascita, amava il jazz e poteva mettere a disposizione la sua cultura accademica di base per dare giusta forma e struttura a un tale innovativo mix di musiche e culture. O’Farrill è conosciuto soprattutto come una figura di spicco nella creazione e diffusione del jazz afro-cubano, ma in realtà era molto più interessato al jazz. Come citato da Bob Blumenthal nelle note di copertina di Pure Emotion , O’Farrill afferma: “Non è mai stato mio interesse primario preservare l’autenticità della melodia cubana solo per gusto di conservazione. Quando ho iniziato la mia carriera negli anni ‘40, un sacco di musica cubana era molto semplicistica. Sono sempre stato più interessato al jazz… e quando sono arrivato a New York, ho naturalmente gravitato intorno a Dizzy e agli altri artisti bebop, cercando la fusione della musica cubana con le tecniche di arricchimento armonico e orchestrazione del jazz. Certo, è stato determinante conservare i ritmi cubani, e ho sempre la sezione ritmica in mente quando scrivo. Si devono scrivere le parti dei fiati che non si scontrino con il concetto ritmico cubano.“ A causa della sua educazione conservatoriale, O’Farrill compone in un contesto strutturale rigoroso e organizzato. I suoi pezzi sono costruiti fin nei minimi dettagli, e mentre l’improvvisazione è una caratteristica del jazz, le sue opere ne fanno un uso minimo. Ben Ratliff, scrivendo per il New York Times, descriveva il suo lavoro come “cinematografico”, affermando che la sua musica è “complicata e lascia poco al caso”.

Tutto ciò è riassumibile nell’ascolto della sua Afro-Cuban Jazz Suite. Anche solo il titolo allude alla inclusione di questi tre elementi, e diversi movimenti sono ispirati dalla musica nell’idioma latino (Canción , Mambo , Rumba Abierta ), mentre altri sono più di ispirazione jazz (6/8 , Jazz ) e tutti sono riuniti sotto la forma ordinata di una suite europea. La suite, inizialmente pubblicata col nome Afro-Cuban Suite, risultava divisa in 5 parti (Cancion/Mambo/6/8/Jazz/Rhumba Abierta) ma in un’intervista degli anni’90 lo stesso O’Farrill corresse e precisò essere la struttura del pezzo pensata in ben otto parti:

  • Introducion-Cancion
  • Mambo (up-tempo- including Parker’s first solo)
  • Transition (a cadenza by Flip Phillips)
  • Introduction to 6/8
  • 6/8 (up-tempo)
  • Transition and Jazz (including the section where Parker and Phillips trade fours and concluding with Rich’s drum solo)
  • Rhumba Abierta
  • Coda (with a return to the introductory material)

O’Farrill ha fatto diverse altre registrazioni per Granz tra il 1951 e il 1954, tra cui “The Second Afro-cuban Suite”  nel 1952, un pezzo più dolce e riflessivo, che O’Farrill considerava più soddisfacente in termini puramente compositivi rispetto al suo più famoso predecessore. Per Dizzy Gillespie compose e arrangiò nel 1954 la Manteca Suite, ampliando il celebre hit del trombettista composto insieme a Chano Pozo nel 1947. Un matrimonio in crisi e complicazioni legali lo hanno visto lasciare gli Stati Uniti nel 1955 per circa  un decennio. Tornò a Cuba, per poi trasferirsi in Messico nel 1957, dove rimase fino al 1965, registrando e lavorando con band locali. Tra le sue composizioni di questo periodo è citabile un’altra grande opera, la Aztec Suite, per il trombettista Art Farmer. Tornato a New York nel 1965 vi si stabilì, lavorando  con artisti del calibro di Clark Terry (in Spanish Rice), Count Basie, Gato Barbieri (nello splendido Chapter Three: Viva Emiliano Zapata), Dizzy Gillespie e Cal Tjader, ma spesso si irritava per essere sempre richiesto solo per scrivere in stile afro-cubano. Ha ritrovato Machito e Gillespie nel 1975 per un nuovo album, Afro-Cuban Jazz Moods, scomparendo dalla scena jazz dopo quella registrazione, lavorando principalmente come compositore di musiche per la tv e spot pubblicitari.Proprio quando la sua carriera nel jazz sembrava finita, riesce a tornare sulla scena prepotentemente con l’uscita del suo album Pure Emotion  nel 1995, nominato per un Grammy Award, così come per il successivo splendido Heart of a Legend, del 1999.  Due incisioni per la Milestone che gli hanno permesso di mostrare al meglio quanto il suo talento di jazzista e big band leader fosse stato nei decenni trascurato e il suo linguaggio orchestrale per nulla datato. Un terzo album, Carambola, apparso nel 2000 risulta essere la sua ultima registrazione prima della morte causa grave malattia nel 2001.

Chano Pozo e Dizzy Gillespie

Mario Bauzá presentò a Dizzy Gillespie il suonatore cubano di conga, ballerino, compositore e coreografo Chano Pozo Gonzales . La breve collaborazione di Gillespie e Pozo (causata più che altro dalla improvvisa morte di Chano Pozo nel 1948, assassinato in un bar di Harlem da un ex ufficiale dell’ US Army ) produsse alla fine del 1947 Algo Bueno, una rielaborazione di Woodyn’ You e Manteca, co-scritta da Gillespie e Pozo e arrangiata da Gil Fuller, che può essere considerata come il primo standard jazz ad essere basato ritmicamente sulla clave. Inoltre va considerato il contributo fondamentale di Pozo nella “Afro-Cuban Drum Suite” meglio nota come Cubana Be-Cubana Bop, composta da George Russell e che ricevette una accoglienza trionfale alla Carnegie Hall, forse considerabile l’opera musicalmente più avanzata di tutto il movimento afro-cuban. A questi sarebbero seguiti qualche anno dopo Tin Tin Deo e Con Alma forse il capolavoro compositivo di Gillespie, entrambi brani stabilmente nel suo repertorio per decenni.

Riguardo al tema di Manteca, Pozo compose la sezione A del tema, basato su una tipica figura melodica afro-cubana di ostinato (guajeos) e l’introduzione, mentre Gillespie ha scritto il ponte. Gillespie ha raccontato: “Se avessi lasciato andare come Chano avrebbe voluto, sarebbe stato un brano strettamente Afro-Cuban . Non ci sarebbe stato un ponte. Ho pensato di scrivere un ponte di otto bar, ma dopo otto bar non avevo risolto, tornando a B-flat, quindi son dovuto andare avanti e ho finito per scrivere un ponte di sedici-bar ”. E ‘stato il ponte che ha dato a “Manteca” una tipica struttura armonica del jazz e lo ha reso un possibile futuro standard.  Le prime esecuzioni pubbliche di “Manteca” rivelarono che, nonostante il loro entusiasmo per la collaborazione, Gillespie e Pozo non avevano raggiunto molta familiarità reciproca con la musica di ciascuno. I membri della band di Gillespie erano abituati a guajeos  troppo swingati e accentati in modo atipico. Thomas Owens osserva: “Una volta che il tema finisce e comincia l’improvvisazione,  Gillespie e la band al completo continuano con lo stato d’animo bebop. Su un live di “Manteca”, si sente addirittura qualcuno suonare rovesciato, in clave 3/2 su un brano che in buona parte ha clave 2/3”.

Stan Kenton

La crescita della musica afro-cubana in un centro musicale come New York, dove il Jazz, in particolare, stava godendo di uno dei suoi periodi più creativi e fecondi, permise in breve tempo a molti musicisti, anche tra i più noti e di tutte le etnie, di volgere la propria attenzione a questo nuovo genere musicale. Woody Herman con il suo “First Herd”e tramite il suo arrangiatore Ralph Burns  aveva già introdotto nel 1945 elementi afro-cubani in Bijou (non a caso brano con il sottotitolo “Rhumba a la Jazz”), anticipando di un paio d’anni le famose incisioni di Gillespie con Chano Pozo. Stan Kenton, bianco americano (nato a Wichita, Kansas, nel 1912) e assolutamente privo di legami etnici con Cuba, ebbe modo all’inizio del 1947 di esibirsi con la sua band in un concerto alla Town Hall, in un cartellone che annunciava la presenza anche della band di Machito. Profondamente impressionato dall’ascolto di quel nuovo sound, Stan ordinò al suo collaboratore/arrangiatore del periodo, Pete Rugolo, di comporre qualcosa sul genere. Ne uscì un brano dedica intitolato, appunto, Machito. John Storm Roberts osservò che il pezzo difettava nella sua esecuzione della presenza di strumentisti latini, sottolineandone in particolare il deficit nella sezione ritmica: nell’ introduzione del brano spicca, ad esempio, il drumming “orecchiato” dal contesto latino, ma eseguito da Shelly Manne su una normale batteria jazz in termini poco idonei. Del brano verrà data un’altra versione leggermente corretta in tal senso nel Marzo dello stesso anno, senza tuttavia generare rilevanti miglioramenti. La versione invece corretta dal punto di vista degli strumenti a percussione del 1958, per l’album Kenton in Hi-Fi, presenta, d’altro canto, una discutibile versione “ripulita”, con l’aggiunta di una ingombrante sezione d’archi di cui francamente non si sentiva il bisogno. L’interesse di Kenton, sempre assai attento ad assorbire e a lavorare su materiali musicali extra jazzistici, tuttavia non scemò. Più tardi, infatti, il 6 dicembre 1947, Kenton registrò, sempre ovviamente a N.Y.C., due brani stavolta anche con la presenza di Machito e della sua sezione di percussioni cubane: Cuban Carnival e The Peanut Vendor, sempre arrangiati da Rugolo. Oltre al già citato Cuban Episode del 1950, Kenton ha negli anni successivi continuato a lavorare con i ritmi afro-cubani, realizzando nel 1956 per la sua orchestra il riuscito album Cuban Fire!, una suite afro-cubana scritta da Johnny Richards (1911-1968). Richards, al di là delle apparenze riferite al suo cognome professionale, aveva in verità genia latina, essendo nato con il vero nome di  Juan Manuel Cascales. Aiutato dal percussionista Willie Rodriguez e coadiuvato dalla presenza di una sezione percussioni costituita da cinque strumentisti latini, Richards riuscì a coniugare e a inserire con autenticità in un consolidato contesto orchestrale, i ritmi che aveva ricercato in Sud America, Messico e Cuba assieme a quelli di New York.

(continua)
(Riccardo Facchi)

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