FREE FALL JAZZ

Facendo un sunto della 38ª edizione del Bergamo Jazz Festival che ha visto l’esordio della appassionata e presenzialista direzione artistica di Dave Douglas, si potrebbe semplicemente utilizzare senza enfasi l’aggettivo “riuscito”, con tutti gli obiettivi iniziali sostanzialmente raggiunti. Il successo di pubblico, per quanto ormai tradizionale in questa manifestazione bergamasca, va comunque sottolineato: i concerti al Teatro Donizetti sono andati pressoché esauriti, così come quelli all’Auditorium di Piazza della Libertà e al Teatro Sociale di Città Alta sono stati ben frequentati. Quanto al successo artistico, si può dire anch’esso sostanzialmente raggiunto, pur considerando che Douglas alla prima sua apparizione nel ruolo non abbia forse voluto prendersi troppi rischi. L’impressione è che abbia cercato di disegnare una visione ampia, per quanto possibile in una sola settimana di concerti, della attuale scena musicale in ambito improvvisato, fornendo al pubblico un quadro più realistico e calibrato di quanto altre manifestazioni italiane hanno saputo fare in questi anni, presentando a volte cartelloni eccessivamente sbilanciati su inflazionati nomi nazionali, o su proposte “pop” di facile richiamo ma parecchio distanti dal jazz e dalla musica di qualità più in generale.

Joe Lovano e Dave Douglas (foto Gianfranco Rota)

Il festival di quest’anno era legato principalmente al tema, peraltro molto frequentato dai musicisti di oggi, della consolidata tradizione jazzistica rivista in chiave attualizzata da diversi punti di osservazione, tenendo conto del complesso intreccio linguistico e di genere da tempo in corso. In questo senso, non tutti i concerti sono riusciti a centrare pienamente l’impegnativo obiettivo.

Premetto che non ho potuto assistere alle esibizioni del duo sassofonistico Tracanna/Milesi, oltre al concerto festivo mattutino del pianista albanese Markelian Kapedani.

Anat Cohen Quartet (foto Gianfranco Rota)

Il concerto che ci è parso riscuotere i maggiori consensi, non solo di pubblico, è stato quello di Anat Cohen, che si è presentata sul palco del Donizetti forte di una ritmica di giovanissimi (due direttamente da Israele e uno da New York) che hanno contribuito a darle un supporto efficacissimo. Ha spiccato in particolare il sorprendente talento pianistico di Gadi Leahvi, soltanto diciannovenne, che ha sbalordito i più per quanto ha saputo fare, risultando perfettamente a proprio agio su una proposta musicale così poliedrica come quella dalla Cohen che, partendo comunque dai solidi concetti del mainstream jazzistico, ha saputo ben miscelare musica brasiliana (con particolare riferimento allo choro) con le influenze mediorientali di appartenenza etnica, peraltro sulla scorta di quanto già realizzato nel suo recente ottimo lavoro discografico Luminosa. Lei è una strumentista di livello straordinario, probabilmente il migliore clarinetto jazz in circolazione e non solo in termini di virtuosismo strumentale, mettendosi in luce con una sofisticata musicalità che è emersa in particolare in Ima, composizione dedicata alla madre, e nei temi del noto autore brasiliano Milton Nascimento.

La forte influenza latino americana nel jazz di oggi, nelle sue varie declinazioni tra musiche brasiliane, afro-cubane e andine, è emersa su altri versanti espressivi anche nell’esibizione di Catharsis condotta dal  trombonista Ryan Keberle, con un progetto caratterizzato dalla voce della cantante di origine cilena Camila Meza. Si sono ascoltati diversi brani del loro ultimo lavoro discografico, Azul Infinito. Un gruppo di giovani talenti interessanti condotto da un leader dal buon carisma e un brillante Mike Rodriguez alla tromba in possesso di un suono lucente e un bel fraseggio articolato senza strafare, hanno nell’insieme prodotto un set originale preparato con serietà.

Geri Allen (foto Gianfranco Rota)

La performance di piano solo di Geri Allen si basava su un collaudato progetto dedicato alle musiche di Detroit e della Motown, registrato in un disco datato 2013. Si sono sentite musiche di Michael Jackson (Wanna be Startin’ Somethin’), Stevie Wonder e Marvin Gaye (Save the Children), tre autentiche icone di quella Black Music che da sempre condivide col jazz le medesime inscindibili radici popolari. Come si usa dire in questi casi, la pratica idiomatica propria di chi, anche solo per  questioni identitarie, fa parte pienamente di quella cultura, ha permesso di ricavare dell’ottima musica eseguita in modo come minimo appropriato. Una esibizione di grande sostanza musicale, priva di fronzoli e gratuiti virtuosismi, come sempre nelle caratteristiche della Allen, che è musicista di spiccata serietà e di sofisticata elaborazione armonica. Accurata la scelta del repertorio, dove ha giganteggiato la figura mai abbastanza lodata di Stevie Wonder, le cui composizioni sono state messe in bella evidenza, con una citazione particolare per la luminosa linea melodica di That Girl e la riscrittura di Tears of a Clown (portata però al successo da Smokey Robinson). L’esordio del concerto è stato tuttavia jazzisticamente più “ortodosso”, con una versione molto “nascosta” del monkiano Epistrophy  e una davvero delicata e ben suonata di A Flower Is A Lovesome Thing di Billy Strayhorn.

Joe Lovano (foto Gianfranco Rota)

Nessuna particolare sorpresa ma semplicemente dell’ottima rassicurante musica per quel che concerne le prestazioni del Classic Quartet di Joe Lovano e il Kenny Barron Trio, che nell’ambito del cartellone giocavano il ruolo di certezze, legate al jazz più canonico. Due musicisti che da tempo hanno raggiunto una sorta di loro classicità attraverso una cifra stilistica inconfondibile e ormai abbondantemente collaudata.

Con Lovano siamo di fronte ad uno degli indiscutibili maestri contemporanei dello strumento, appartenente a quella generazione del post coltranismo, tra fine anni ’40 e inizio ’50, che ha avuto in Dave Liebman, Jerry Bergonzi, Michael Brecker (purtroppo  già deceduto da quasi un decennio) e Bob Mintzer, oltre al sassofonista di Cleveland, i suoi più significativi rappresentanti. Al quartetto si è aggiunto Dave Douglas a metà concerto, in tre brani riferiti al recente comune lavoro discografico ispirato alla figura di Wayne Shorter e intitolato Soundprints. L’unico appunto è relativo alla distribuzione dinamica dei brani, che sarebbe potuta risultare più varia e fruibile, inserendo nel set prescelto qualche ballad in più, come la splendida versione proposta nel bis di I Waited For You. Il suo fraseggio estremamente ricco e articolato si adatta infatti particolarmente bene a brani del genere.

Quanto a Kenny Barron e al suo trio non si può che dirne bene e certo non lo si scopre ora. Un concerto di alto livello anche se nelle attese, per uno dei grandi maestri dello strumento ancora in vita e in piena attività. Ottima l’intesa di gruppo, con punte di merito per il corpulento batterista Johnathan Blake. Ha spiccato nel repertorio presentato una raffinata versione di Nightfall di Charlie Haden, contrabbassista scomparso da non molto e con il quale Barron a suo tempo incise splendidi duetti.

Kenny Barron (foto Gianfranco Rota)

Nel pomeriggio del sabato e per gli amanti della musica improvvisata di stampo europeo di derivazione jazzistica hanno riscosso consenso gli Atomic, gruppo svedese/norvegese attivo da più di un decennio e composto da strumentisti di tutto rispetto, con una citazione particolare per il trombettista Magnus Broo. Si è trattato di musica decisamente più viva e diversa dal brumoso jazz nordico che mi è capitato di ascoltare in più di un’occasione, spesso in grado di procurarmi una sequela di sbadigli. Un ambizioso connubio tra avanguardie post free e una scrittura prossima ad una contemporanea europea un po’ rimasticata, alternato a momenti ritmicamente più vivi e timbricamente freschi, con continue variazioni di clima e di tempo in grado di catturare l’attenzione del pubblico.

La giornata domenicale dedicata ai gruppi dei batteristi ha fornito riscontri diseguali. Nel pomeriggio il quartetto acustico di Mark Guiliana ha presentato un quartetto acustico compatto che si è mosso in chiave attualizzata tra i riferimenti, quasi inevitabili, al quartetto coltraniano anni ’60 e quelli meno scontati e più “cantabili”, quasi da quartetto americano jarrettiano, basati su temi di Bob Marley (con la proposizione di Johnny Was), e di David Bowie, icona rock per il quale Guiliana ha suonato nell’ultima sua incisione prima della recente scomparsa. In sostituzione di Shai Maestro, presente nella pubblicazione al debutto per il quartetto di Family First, c’era il giovane pianista di origine cubana Fabian Almazan. Al di là del gusto personale di ciascuno, Guiliana, che ascoltavo per la prima volta, ha reso tangibile il perché è oggi considerato uno dei batteristi più richiesti e versatili della competitiva scena musicale newyorkese, con una impressionante raffica di complesse e moderne figure ritmiche infilate sia in assolo che in accompagnamento.

Louis Moholo-Moholo (foto Gianfranco Rota)

Circa i concerti serali, ci è parso riuscito e stimolante, anche se forse un po’ prolisso, il progetto Five Blokes del settantacinquenne batterista sudafricano Louis Moholo-Moholo, in un intreccio musicale variopinto e fonicamente energico, fatto di jazz intriso di temi folk sudafricani cantabili e cantilenanti e spunti parzialmente riferibili alla cangiante musica mingusiana. Un insieme di temi ed atmosfere musicali mixate in forma di simil-suite, coordinato dall’abile conduzione del pianista inglese Alexander Hawkins, ben sintonizzato sulle intenzioni dell’istrionico leader alla batteria.

Qualche perplessità mi hanno  trasmesso il progetto del giovedì al Sociale di Franco D’Andrea Traditions Today  e Il divertente progetto Wicked Knee del batterista Billy Martin. Entrambi condividevano certe affinità in termini di rivisitazione in chiave moderna della tradizione. Il progetto del pianista meranese, peraltro uno dei nostri indiscutibili migliori rappresentanti del jazz, non mi è sembrato del tutto a fuoco e con qualche estemporaneità di troppo, d’altronde presumibile, vista la presenza del sempre istrionico Han Bennink e l’aggiunta fuori programma dello stesso Dave Douglas in un paio di brani. Ha ben impressionato Mauro Ottolini, che è sembrato decisamente il solista più brillante, specie nell’utilizzo del suo campionario di sordine. L’uso di brandelli tematici della profonda tradizione jazzistica, quali King Porter Stomp, Caravan e riferimenti al blues e allo swing in stile anni ’30, non ha portato ad uno sviluppo del tutto coerente col tema progettuale. Sia le parti improvvisate che quelle d’insieme scritte per i fiati non mi sono parse particolarmente elaborate, lasciando forse un po’ troppo spazio alla proverbiale estemporaneità del batterista olandese, che francamente, dopo tanti anni passati da artista creativo e di avanguardia si sta oggi trasformando nella spettacolare quanto ripetitiva macchietta del tempo che fu. D’Andrea l’ho comunque  sempre preferito da solo o in formazioni ridotte con il suo pianoforte al centro, il che potrebbe anche aver condizionato la personale percezione.

Analoghi difetti di messa a fuoco progettuale si sono riscontrati nella proposta della band in stile New Orleans di Billy Martin, in realtà non così attualizzata, al di là del valore indiscutibile di solisti ferratissimi nel genere come Steven Bernstein. Si sono sentiti richiamare in sequenza: il celebre Sugar Foot Stomp della orchestra di Fletcher Henderson, un frammento di Una Muy Bonita di Ornette Coleman, per arrivare all’ellingtoniano inno jazzistico allo swing di It don’t mean a thing if it ain’t got that swing senza particolari spunti di riscrittura in chiave moderna.
(Riccardo Facchi)

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