FREE FALL JAZZ

Uno dei cliché ancora oggi circolanti intorno al jazz è che la tecnica strumentale possa diventare un ostacolo all’espressività, che cioè possa in qualche modo vincolarla, impedendo di liberarla nella sua interezza.

Come spesso accade, si tratta di un luogo comune che si traduce in un banale fraintendimento, se non nell’ennesimo falso, utile, nel caso, a giustificare certe mistificazioni artistiche, fiorite particolarmente dopo la nascita del cosiddetto “Free Jazz” e del relativo concetto di “libera improvvisazione”, inteso come affrancamento dall’ambito tonale e dalle relative regole armoniche.

A tal proposito, si citano spesso esempi musicali che ad una più attenta analisi si rivelano impropri, se non del tutto errati. Uno dei classici casi evocati di presunta “scarsa tecnica”, ma di contemporanea massima espressione artistica è quello relativo a Thelonious Monk. Il suo pianismo si è detto frequentemente in passato essere naïf e totalmente eterodosso, non possedendo, nemmeno in minima parte, i  crismi di quella tecnica digitale propria dei grandi concertisti. Niente a che vedere, rimanendo volutamente in ambito jazzistico, col pianismo di un Art Tatum o di un Oscar Peterson, tanto per intenderci, non a caso e al contrario, spesso citati superficialmente come tipici esempi di virtuosismo fine a se stesso. Ovviamente, in entrambi i casi si sono affermate cose gravemente distorte.

Anche cambiando tipologia di strumento, si sono fatti discutibili se non pretestuosi esempi: la tecnica di un Freddie Hubbard o di un Wynton Marsalis contrapposta a quella di un Miles Davis o di un Chet Baker, campioni dichiarati di espressività, ma non di altrettanta tecnica, sino a far derivare discorsi analoghi su figure del Free e Post-Free, come Don Cherry o Lester Bowie. Ma si potrebbe continuare con gli esempi su altri strumenti, sicché si è arrivati bellamente a prendere sul serio anche certo dilettantismo “freecchettone” utilizzando impropriamente il caso di Ornette Coleman (per certi versi analogo a quello di Monk), che ha praticamente plasmato una nuova concezione musicale fatta su misura per le sue esigenze espressive. Insomma, la tecnica in contrapposizione all’identità artistica ed espressiva: se si ottiene l’una parrebbe quasi impossibile possedere l’altra. Ovviamente le cose non stanno semplicisticamente così e non è nemmeno troppo difficile arrivare ad una confutazione sul tema, perlomeno per i casi esemplari citati.

Hiromi Uehara

Sgombriamo però il campo subito dai fraintendimenti: il virtuosismo fine a se stesso esiste e oggi nella musica improvvisata ne abbiamo purtroppo copiosi esempi. E’ vero anche che la probabilità di riscontrarlo è più tra gli improvvisatori che agiscono all’interno di un linguaggio canonico consolidato e già ampiamente sfruttato, piuttosto che tra chi sperimenta e innova alla ricerca di nuovi linguaggi e nuovi modi di esprimersi, ma questo spesso dipende da una scelta, o una semplice necessità per limiti espressivi propri del singolo musicista, come, viceversa, le carenze tecniche tendono a focalizzare quelle espressive, alla fine però fortemente limitate in termini di gamma espressiva proprio da quelle eventuali carenze. In nessun caso se ne può comunque trarre una regola generale.

Francamente, pare assurdo ritenere che una cosa automaticamente escluda l’altra, in quanto in necessaria connessione e convivenza musicale. Piuttosto, la tecnica dovrebbe sempre essere al servizio dell’espressione musicale, poiché senza supporto adeguato di una qualsiasi tecnica il musicista non può esprimere seriamente nessun genere d’arte, così come non basta l’originalità espressiva per creare dell’arte. In estrema sintesi si potrebbe dire che la tecnica è il mezzo per arrivare allo scopo espressivo ed i loro ruoli non sono pertanto  interscambiabili.

La musica è in sostanza un linguaggio, e come tale ha una sua codifica, segue delle precise regole strutturali e formali. Pensare di esprimere pensieri complessi e/o articolati con un linguaggio  elementare o gravemente limitato, se non persino scorretto, è impensabile. Come per scrivere un libro occorre la conoscenza approfondita e articolata della lingua e delle sue regole grammaticali e di sintassi, così la musica richiede analoga conoscenza. In altri ambiti dello scibile umano, il fisico senza lo strumento formale matematico (che è poi la sua lingua) non può esprimere alcun pensiero teorico, men che meno, comunicarlo al resto del mondo. Il pittore per dipingere segue sempre una tecnica, originale o meno che sia rispetto a quelle del passato. Qualsiasi forma espressiva ha un suo background tecnico e di codici di riferimento, e l’innovatore, o l’artista naïf di turno, costruisce eventualmente un suo quadro di regole, una inedita codifica attorno al suo nuovo linguaggio, che può avere inizialmente solo il problema di essere compreso da chi ne usufruisce, ma la “non-regola” in sé e per sé non porta all’arte, ma a un bizzarro e mistificatorio non senso. Addirittura è possibile con i nuovi codici rivedere i materiali del passato spesso con brillanti risultati artistici.

Entrando nello specifico del jazz e della musica improvvisata, occorrerebbe innanzitutto chiarire cosa si intende per “tecnica” in tale ambito. Certamente non si può ridurre ad un puro fatto digitale che eventualmente è proprio degli esclusivi esecutori. La tecnica per un improvvisatore, in quanto compositore istantaneo, si dipana in diverse direzioni e deve essere funzionale alle necessità dell’improvvisazione, le quali richiedono innanzitutto conoscenze armoniche approfondite e di accesso pressoché immediato, mentre l’aspetto puramente digitale adeguatamente esercitato dovrebbe favorire quella scioltezza fraseologica e di pronuncia ritmica che deriva dal raggiungimento di una consolidata sicurezza esecutiva. Infine, in particolare per gli strumenti a fiato, ma non solo, occorre l’ottenimento di un suono personale, raggiunto con lo sviluppo e l’esercizio di una adeguata tecnica di emissione del suono.

Nel caso di Monk, sarebbe curioso chiedere ad un suo studioso e collega come Ran Blake se a suo avviso egli avesse o meno “tecnica” e probabilmente alla domanda ci guarderebbe con un sorriso di compatimento. E’ noto che la conoscenza armonica di Monk fosse ampia, approfondita e molto avanzata, e secondo quanto prima detto, già questo potrebbe anche bastare. Certo, il suo approccio digitale alla tastiera era peculiare e fortemente eterodosso, ma rispetto a cosa? Rispetto al concertismo accademico che sostanzialmente non faceva parte della sua tradizione culturale di base e delle sue esigenze espressive. Quell’approccio fortemente ritmico e percussivo sulla tastiera, peraltro riscontrabile un po’ in tutta la storia del pianismo jazzistico africano-americano, da Earl Hines a Cecil Taylor ed oltre, richiedeva forzatamente di procedere verso una spiccata deriva dai canoni estetici e comportamentali previsti dal pianismo accademico. Non vi è dubbio che Monk si sia costruito una tecnica funzionale alle sue esigenze espressive, e se si arriva persino a ritenere che egli non fosse di fatto un pianista, in fondo la cosa riguarderebbe allora moltissimi altri colleghi del jazz meno eterodossi di lui. Che dire ad esempio del coevo Bud Powell, di Horace Silver e del relativo pianismo bop/hard.bop che praticamente non facevano uso del pedale e pure quasi assenza del tocco, con limitato uso della mano sinistra, sproporzionato rispetto a quello della destra, con un approccio alla tastiera più da fiato che da pianoforte? Analogo discorso si potrebbe fare per Mc Coy Tyner. Pare dunque evidente che l’errore sta nel riferimento prescelto utilizzato come criterio di valutazione, non nella tipologia di pianista.

Valutando invece il caso di un Oscar Peterson e di un Art Tatum si è viceversa arrivati a conclusioni diametralmente opposte ma altrettanto errate, partendo da opposti presupposti, ossia pianisti in pieno possesso della tecnica esecutiva propria dei grandi concertisti, ma viziati secondo molti stavolta da carenze espressive.

Peterson, per dirla come Gianni M. Gualberto nel suo recente saggio pubblicato su Free Fall Jazz è “Una fra le tante “vittime” del fiorente connubio fra incultura, approssimazione e pregiudizio…, in quanto la sua …è stata arte spacciata per spettacolare quanto insignificante virtuosismo”. Come”… lo stesso si può dire del virtuosismo “fuori misura” di Art Tatum, una veste sgargiante che ricopriva un’arte improvvisativa di suprema raffinatezza e ingegnosità armonica, una gargantuesca capacità di parafrasi e variazioni, un’inarrestabile capacità di delineare armonie sostitutive (per non parlare del tocco, dell’uso e del controllo totale della tastiera, del senso del ritmo e dello swing): un fenomeno lessicale di tali proporzioni da autocandidarsi inevitabilmente alla marginalità per eccesso di talento”.

In realtà, come ben analizza Gualberto nel prosieguo del pezzo citato, il pensiero musicale di entrambi era di altissimo spessore e di grande sofisticazione, per nulla scevro da elementi espressivi e in definitiva artistici. Solo che certo virtuosismo tecnico nasconde all’ascoltatore medio e poco avvezzo alla percezione uditiva a certe velocità esecutive il relativo contenuto musicale ed espressivo, il che ovviamente non può essere attribuibile al demerito del musicista. Provare a riascoltare attentamente per credere.
(Riccardo Facchi)

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[...] come se arte e tecnica strumentale facessero sempre a pugni tra loro (qualcosa sul tema avevo già scritto…). La solita serie di cliché critici abusati in questo paese anagraficamente vecchio e dal [...]