FREE FALL JAZZ

Chi scrive è tutt’altro che un esperto di jazz – di cui possiedo una conoscenza ferma ai nomi fondamentali e nel complesso molto felice – ma ha le due grandi fortune di essere stato folgorato all’ascolto del magnifico ‘Live at Newport’, su consiglio dell’ottimo Negrodeath, e di trovarsi a vivere a Dublino, città dove Mr. Scott è tornato ad esibirsi (per la terza volta in vita sua, dice lui) in una tranquilla serata di metà Novembre.
Non mi risulta che Dublino e l’Irlanda in generale siano avide di sonorità jazz, classiche o d’avanguardia che siano, ma l’accogliente ed originalissima venue The Sugar Club (una vecchia sala proiezioni riabilitata a locale notturno) risulta perfetta per la serata, coi suoi eleganti posti a sedere disposti a terrazzo come nei cinema, in una penombra arricchita dalle luci rosse del palco da una parte e da quelle cristalline del pub al piano superiore. Un clima che sa di America elegante e metropolitana, per me molto simile all’aria che si respira nella produzione del nostro, almeno fino ad ‘Atunde Aduja’.

La partenza della serata è pessima, col trio The CEO Experiment guidato dal signor Ceo nelle vesti di tastierista, che propone quanto di più scolastico, noioso e male arrangiato si possa ascoltare in un’occasione così carica di entusiasmo. Eppure l’audience accompagna il trio con applausi e grida di eccitazione lungo gli interminabili rigurgiti di scale ed esercizi. Questo mi fa presagire il peggio. Forse il jazz dal vivo non è “la mia tazza di the”, penso.
Ma ecco che sale il Christian Scott Quintet.

Sarebbe bastato il loro ingresso per mandare in cielo la serata. Un manipolo di ragazzi con l’aspetto di chi ha lasciato perdere i compiti di matematica per farsi una suonata con gli amici, eppure con tutta la disciplina del mondo quando rivolgono lo sguardo a Christian. Lui, un po’ “figo del quartiere”, un po’ capo branco e un po’ fratello maggiore, sale a testa alta, con indosso occhiali da sole e un collare dorato micidiali. Guadagna il centro del palco e non appena il benvenuto della platea si smorza, apre le scene con una sequenza di note profonda, lenta e carica di energia.
È subito un’altra musica. Da brividi.
Non sono riuscito ad ottenere alcun riscontro sul titolo del primo brano, un po’ “loose” e ipnotico, ma qualche ricerca sul web mi fa pensare che si tratti della cover di ‘The Eraser’ di Thom Yorke, frontman dei Radiohead.
Col secondo pezzo ‘Sunrise in Beijing’ il leader comincia a spostare i riflettori sulla sua band, il quintetto, che è proprio accreditato nel nome della serata: “Christian Scott Quintet”. Non è assolutamente un caso. Si capisce fin dalle prime note che si tratta di una generazione di fenomeni: età media attorno ai 20 anni ma tanto talento e carisma come se anziché di età media fosse più adeguato parlare di “età complessiva” del gruppo.
L’effetto della loro personalità e del loro sound è già incredibile all’apertura del brano, dal tema di piano elettrico e l’attacco della batteria, con un tempo semplicemente incredibile nella resa dal vivo, fino a quando il flauto di Elena Pinderhughes (non trovo le parole per lei) spicca il volo, incoraggiato dagli interventi di ottone, mandando in iperbole l’esecuzione tutta. Sono solo i primi venti minuti dello show.

Invero il tema di tutta la serata sarà il contributo di ogni singolo membro del quintetto. E vi faccio notare che i musicisti sul palco in realtà sono sei. Scott, nella prima delle sue lunghe presentazioni (divertentissime, il ragazzo è una sagoma), dichiara che lo spettacolo sarà la sua band; ogni pezzo suonato, ogni assolo, ogni accompagnamento saranno al servizio di un collettivo che lui ha personalmente selezionato dal panorama più giovane ed inedito del jazz americano.
Il concerto di stasera è la prova che ha fatto un lavoro eccellente.
E’ una grande conferma per i gusti del sottoscritto la capacità interpretativa e la versatilità di Lawrence Fields al pianoforte, strumento a cui personalmente attribuisco molta della bellezza dei pezzi di Scott, mentre mi colgono totalmente di sorpresa la sezione ritmica ed i fiati; perfetti ed esagerati allo stesso tempo, soprattutto nel pezzo dalle derive più rock della serata, quella ‘West of the West’ su cui a turno si scatenano il chitarrista Dominic Minix, a cui viene accreditato il personaggio del timidone, il sassofonista Braxton Cook, “inconsapevole” latin lover del collettivo, e il bassista Kris Funn, l’unico dei citati a superare i 20 anni, brillantissimo e divertente nell’abbozzare addirittura un riff dei primi Metallica nel suo solo.

A differenza di quanto mi aspettavo, le sonorità dal vivo non sono proprio ricercate e “metropolitane”, hanno invece un carattere molto schietto e sanguigno. Il groove è “ridiculous” – nel senso più americano del termine, cioè godurioso ed eccitante fino alle risate – e scatena la platea in applausi ed esclamazioni sia durante che al termine di ogni brano, ma l’equilibrio e la fluidità dell’esibizione sono merito di Christian Scott; carismatico direttore d’orchestra, trombettista dalla personalità incontenibile ma anche mattatore della serata, con le sue digressioni sulle qualità musicali e sulla storia professionale dei componenti del quintetto. In vita mia non ho mai sentito un artista parlare in maniera così precisa, eloquente ed affettuosa della propria band. Li ama uno ad uno e ad uno ad uno li trasforma in macchiette indimenticabili, raccontando vari aneddoti sulla vita on the road o su come si siano trovati a lavorare nel suo nuovo progetto ‘Stretch Music’; che non è solo il nuovo album ma anche un nuovo concetto di promozione e sviluppo della musica jazz, ci tiene a ricordare.
E’ forse questo che, da profano quale sono, riconosco maggiormente nell’etichetta di “new jazz” che viene attribuita al nostro, una musica più vasta, più evoluta e quindi più potente ma che non rinnega i propri numi tutelari, ai quali mi è parso che paghi un equo tributo.

Poche le canzoni, fra cui anche ‘The Last Chieftain’ e la latineggiate ‘TWIN’ dall’ultimo album e ‘Eye of the Hurricane’ di Herbie Hankock, ma immensa la qualità della serata.

In chiusura Christian annuncia che la band si sarebbe fermata al pub per rilassarsi con qualche pinta e per poter scambiare due chiacchere col soddisfattissimo pubblico Irlandese. E lo dice come se sentisse il bisogno di fare qualcosa in più oltre allo show incredibile che ci ha appena regalato.

Non ho idea di quanto tempo passerà prima di poter rivedere dal vivo un artista di questo calibro, nel frattempo la mia copia di ‘Stretch Music’ acquistata in loco comincia a mostrare i vari e meritatissimi segni di usura.
(G. Montresor)

Comments are closed.