Concerti come quello sentito domenica scorsa spiegano meglio di altri il successo di una manifestazione ormai consolidata come Aperitivo in Concerto, che quest’anno ha vissuto una sequenza di date regolarmente sold out, quasi indipendentemente dalla musica proposta sul palco del teatro Manzoni, riuscendo nel tempo a creare un rapporto fiduciario con il proprio pubblico, ormai sicuro della buona qualità dei progetti musicali presentati.
Certamente l’accessibilità del prezzo dei biglietti ha un suo peso non trascurabile (anche se al sottoscritto è capitato di vedere sedie vuote a concerti gratuiti), ma la cosa che pare differenziare l’ormai tradizionale manifestazione milanese rispetto ad altre che da tempo patiscono una certa crisi di pubblico, è fondamentalmente dovuta ad un approccio aperto, non “ideologico” nella composizione dei cartelloni, nei quali domina cioè una notevole varietà, senza preclusioni e steccati verso nessun genere musicale, tenendo conto della attuale globalizzazione dei diversi linguaggi musicali, ma preservando sempre la qualità artistica. Quel che intendiamo dire è che le direzioni artistiche troppo spesso compilano i cartelloni, o sulla base di settarie preferenze personali, spesso esclusive ed elitarie, trascurando il reale target che rimane pur sempre la conquista del pubblico potenziale, o, viceversa, concedendosi ai gusti musicali più massificati, inserendo grossolane proposte di forte richiamo (spesso anche costose), tradendo magari il tema culturale tradizionale delle singole manifestazioni. In questo senso, ciò che accade da alcuni anni a festival storici come Umbria Jazz costituisce un caso negativo esemplare. Tra l’altro, la direzione artistica di Aperitivo tiene sempre a sottolineare che la sua non è una stagione jazzistica, per quanto alla fine il jazz di ottima qualità non manchi mai e, se vogliamo dirla tutta, se ne trova più che in altre dove si dichiara la sua esclusiva presenza.
Per certi versi ci vuole oggi anche del coraggio a presentare un concerto divertente e spettacolare come quello di Catherine Russell, che porta con sé un repertorio musicale legato al jazz degli anni ’20 e ’30, senza rischiare di sentirsi dare del nostalgico conservatore da chi nel 2015 parla ancora di separazione tra arte e intrattenimento, di cultura “alta” vs popolare, in un ambito musicale nel quale storicamente una netta separazione del genere non è mai esistita ed è del tutto priva di riscontri, attribuendo alla musica americana, cui anche il jazz appartiene, una rappresentazione distorta che sostanzialmente non gli è propria.
Il fatto è che quel periodo è stato per il jazz un’autentica “golden age”, in cui l’impulso innovativo sulla musica (fattosi sentire anche in geniali compositori della musica colta, come Igor Stravinskij) era, contrariamente a quanto si pensa tra molti jazzofili odierni, ai suoi massimi livelli: Tin Pan Alley, Broadway e Black Broadway, Gershwin e i grandi songwriters, Louis Armstrong, Earl Hines, Fats Waller, le blues singers, il gospel, lo stride piano, Fletcher Henderson, Duke Ellington, Benny Goodman e lo Swing, in poco più di un ventennio il jazz e la musica americana tutta hanno segnato per sempre il percorso della musica del Novecento. Per quale ragione oggi si debba mandare all’oblio una stagione così creativa e una tradizione musicale così importante in nome di artificiosi “progressismi” musicali annichilenti un grande passato del genere, ha culturalmente davvero dell’inspiegabile. Nessuno in ambito di musica colta si comporterebbe in tal modo. Occorre mettersi il cuore in pace: il Jazz e le musiche improvvisate odierne hanno ormai una tradizione secolare consolidata e un repertorio cui fare riferimento. Non è una musica di moda e per mode del momento, ed è curioso che chi si propone in certe modalità elitarie non si accorga di applicare in fondo gli stessi comportamenti propri della musica massificata.
Restando al concerto, possiamo dire che ci siamo divertiti ad ascoltare musica molto ben eseguita da strumentisti di valore che dispongono perfettamente dell’idioma che praticano, apprezzando la comunicativa e capacità di stare sul palco tipica della professionalità dei musicisti americani. Non si è trattato di semplice revival, ma di un gustoso spettacolo musicale capace di mettere in una luce fedele ma aggiornata il sound e lo spirito di quei magici anni. Catherine Russell si è confermata cantante jazz ferrata e padrona della scena, nella tradizione delle grandi cantanti afro-americane. Figlia di Luis Russell, mitico personaggio del jazz tradizionale e grande direttore dell’orchestra di Louis Armstrong, ha presentato con il suo solidissimo gruppo di musicisti un repertorio di brani molto vario e significativo tra anni ’20 e ’30 scorrendo diversi protagonisti di quell’epoca: Louis Armstrong, protagonista quasi assoluto per la Russell, Earl Hines, Fats Waller, Cab Calloway, Lucky Millinder, ma anche cantanti come Ida Cox, Billie Holiday, Maxine Sullivan e Ester Phillips, oltre alla proposizione di brani dallo spirito blues e gospel-soul che solo i cantanti neri sanno davvero approcciare nel modo adeguato. Tra i temi molto ben interpretati, ci pare di aver riconosciuto: Some of These Days,Everybody Loves My Baby, I Can’t Believe That You’re In Love With Me, Darktown Strutter’s Ball, Back O’ Town Blues (dedica al padre), A Monday Date e Lucille (Louis Armstrong), Four or Five Times, You’re my Thrill (Billie Holiday), Aged in Mellow (Ester Phillips), I’m Crazy About My Baby (Fats Waller). Il gruppo che l’accompagnava era davvero composto da ottimi solisti, con una menzione speciale per il chitarrista e direttore musicale Matt Munisteri, che certo non ha bisogno di mie presentazioni e che ha sfornato pregevoli assoli. Il trombettista Jon Erik Kellso si è rivelato un arguto discepolo armstronghiano in stile Ruby Braff. Mark Lopeman al sassofono tenore influenzato da un mix di Bud Freeman e Budd Johnson, mentre al clarinetto da Benny Goodman e Peanuts Hucko. Solida la sezione ritmica, con l’esperto Mark Shane al piano (tra Teddy Wilson e Billy Kyle) e i giovani Tal Ronen al contabbasso (allievo di John Patitucci) e Darrian Douglas alla batteria (già con Wynton e Ellis Marsalis).
Pubblico divertito e a spellarsi le mani. Solo puro intrattenimento? Può darsi, ma non ci vergogniamo di aver passato una bella mattinata domenicale pre-natalizia come questa, che può fare solo che bene all’immagine pubblica del jazz e della buona musica, molto più di qualche noioso pseudo-sperimentalismo di 50 anni fa, fatto passare ancora per “avanguardia musicale”.
(Riccardo Facchi)