FREE FALL JAZZ

Ci sono dischi che probabilmente per ciascuno di noi hanno segnato per sempre il proprio rapporto con il jazz, creando un legame di passione e di amore indissolubile verso questa meravigliosa musica. Per il sottoscritto, il concerto registrato dalla band di Charles Mingus nel settembre del 1964 al Festival di Monterey è uno di quelli, perciò potrei risultare in questo scritto sbilanciato nelle valutazioni, ma, considerato il valore oggettivo del contenuto musicale, poi non in modo così eccessivo. Dico subito che il disco ha un unico reale difetto, è registrato maluccio, cosa importante forse per chi ha un rapporto con la musica più da audiofilo che da melomane, ma non così condizionante per chi invece è abituato ad apprezzare senza alcun problema il contenuto musicale delle vecchie registrazioni dei decenni antecedenti l’ultima guerra mondiale. La cosa si patisce particolarmente sul brano più importante e visionario del disco, quel capolavoro assoluto del jazz che è la versione orchestrale di Meditations on Integration. Probabilmente l’errore di registrazione è stato dovuto al fatto che il concerto iniziava con un medley ellingtoniano e un assolo di basso di Mingus. Il volume è stato per questo alzato e poi non modificato per le necessità del livello sonoro orchestrale finale, producendo un suono parecchio distorto negli insieme. Nonostante questo si riesce comunque ad apprezzare ancora oggi la potenza e l’urgenza espressiva di quella magistrale composizione mingusiana, a mio avviso tra le vette di tutta la lunga storia del jazz. Ancora oggi non riesco a trovare nel jazz qualcosa di più avanzato di questo brano e sono passati già più di 50 anni. Credo seriamente che Mingus sia assieme a Duke Ellington il più grande compositore che il jazz abbia avuto e uno dei più importanti della musica del Novecento. Già, perché Mingus oltre che un grande contrabbassista e ledear era innanzitutto un geniale e innovativo compositore, in qualche modo considerabile la prosecuzione naturale del Duca. Non vi sto a descrivere la suprema bellezza di questi quasi 25 minuti di musica. E’ troppo limitativo l’uso della parola per descriverli e rischierei di dimenticare qualche importante aspetto. Dico solo che è un esempio impressionante di raggiunto equilibrio tra scrittura e improvvisazione ricercato da molti grandi e per i diversi decenni di storia jazzistica. Un punto di arrivo, in cui genio e maturità trovano un loro meraviglioso forse irripetibile punto di incontro. Invito solo ad ascoltarlo, o semplicemente riascoltarlo per chi già lo conosce bene. Ogni volta è una nuova scoperta, ogni volta è un brivido sulla pelle.

L’amore e la profonda influenza del Duca su Mingus è cosa notoria, più volte dimostrata in discografia, ma questo Ellington Medley con il quale la band di Mingus esordisce nel concerto (con una indimenticabile annuncio dello speaker del festival) è davvero una meravigliosa narrazione in musica del personaggio. Non è una distratta dedica, ma è un puzzle ben pensato e formalizzato nella appassionata sequenza scelta dei brani, ciascuno associato pertinentemente ad uno strumento, simile al modo utilizzato da Ellington che amava sempre pensare le sue composizioni per evidenziare un preciso solista della sua band. Sicché Mingus esordisce da solo col suono profondo della sua cavata al contrabbasso su I Got It Bad, seguito da un ispiratissimo Charles Mc Pherson su In A Sentimental Mood, sorta di incrocio tra l’espressività unica e inimitabile di Johnny Hodges e la ricchezza fraseologica di Charlie Parker. Quindi una sorta di duetto tra il piano di Jaki Byard e il basso di Mingus su All Too Soon. Mood Indigo tocca invece brevemente al trombone di Lou Blackburn, seguito da Sophisticated Lady, specialità solistica di Mingus già collaudata nell’antecedente tour europeo primaverile. Gran finale con un eccitante e swingante A Train in cui tutta la band partecipa e si evidenziano gli strepitosi assoli di Mc Pherson, tanto in stato di grazia al contralto da sembrare pervaso dallo spirito creativo di Parker, e di Jaki Byard al piano, in perfetto stile stride.

Orange Was The Color Of Her Dress, Then Blue Silk non è comunque da meno del resto dell’album. Un’altra perla compositiva, di una bellezza sconvolgente, regolarmente in repertorio di Mingus anche negli anni ’70, qui suonata in una versione estremamente cangiante, con numerosi cambi di tempo, accelerazioni e decelerazioni metriche possibili da gestire solo con un affiatamento di gruppo perfetto. Anche qui McPherson dimostra di essere in reale stato di grazia, con un assolo ardito e ispiratissimo, degno del miglior Charlie Parker. Jaki Byard segue con un assolo molto “soul”, ma in generale i livelli di creatività del gruppo sono fuori dall’ordinario.

Disco intriso di afro-americanità sino al midollo, che non ci si stancherebbe mai di risentire e che non può mancare in nessuna discoteca jazz degna di questo nome.
(Riccardo Facchi)

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[...] Recensione del capolavoro mingusiano al seguente link [...]