FREE FALL JAZZ

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Uno dei cliché critici su Duke Ellington comunemente accettati, recita che egli debba fondamentalmente la sua fortuna e eccezionale fertilità compositiva, senza pari nella storia del jazz, alla intima condivisione artistica e musicale con Billy Strayhorn, che data dal 1938 sino alla sua morte avvenuta nel 1967. In realtà, la cosa è molto più discutibile di quanto non appaia in prima istanza, in quanto, se si va ad indagare meglio, si scopre che, sia prima dell’avvento di Strayhorn in orchestra, che dopo quel lungo intervallo di tempo, Ellington ha scritto decine di composizioni capolavoro. Di più, oserei dire che gli ultimi anni, in particolare, hanno mostrato un Ellington ancora in eccezionale vena creativa, in grado di sfornare una serie di pagine a largo respiro che sono considerabili tra i massimi capolavori della sua discografia e, conseguentemente, dell’intero jazz. Partendo proprio dal sentitissimo “…And his Mother Called him Bill”, dedica dell’intera orchestra al compianto “Sweet Pea” appena deceduto, passando per la “Latin American Suite”, la “Afro Eurasian Eclipse”, la “Degas Suite”, la “Togo Brava Suite”, senza dimenticare il secondo e il terzo concerto sacro, la penna del “Duca” in realtà non si è mai fermata.

Una di queste straordinarie opere è sicuramente la “New Orleans Suite“, scritta nella primavera del 1970 e commissionata al tempo da George Wein per il New Orleans Jazz Festival di quell’anno, in grado di esaltare al massimo livello le riconosciute doti di narratore in musica del Duca. La registrazione fu effettuata in due tempi: nell’aprile tutti i titoli che non prevedevano ritratti, mentre questi furono registrati tutti assieme il 13 maggio, solo due giorni prima della improvvisa morte di Johnny Hodges.

E’ difficile trovare qualcosa in musica che descriva così bene e in modo così personale New Orleans, i suoi umori, i suoi personaggi più significativi e la sua musica, senza in realtà emularne in alcun modo il tipico stile rintracciabile in migliaia di registrazioni discografiche, ma la bellezza di questa pagina ellingtoniana non sta solo nella straordinaria capacità narrativa del suo autore, ma proprio nella bellezza intrinseca e senza tempo della musica prodotta.

Non si sa praticamente cosa scegliere per il meglio. Sintomatica per Ellington la scelta di partire con un basilare blues, intitolato semplicemente Blues for New Orleans, con l’eccezionale presenza di Will Bill Davis all’organo e la splendida prestazione solistica di Johnny Hodges, noto grande interprete del genere, l’ultimo suo blues e l’ultima sua registrazione. Blues come colonna portante della musica della Crescent City e dello specifico contributo musicale  degli afro-americani.

Second Line è forse il brano della suite che più efficacemente si approssima alla tipica polifonia bandistica di New Orleans, suonato con grande ricchezza timbrica, come d’uso per Ellington, e grande swing. Ho poi una predilizione particolare per Thanks for the Beautiful Land of the Delta, per la sofisticazione armonica e la emozionante potenza e precisione esecutiva, con un Harold Ashby assoluto protagonista. L’eleganza del tempo ternario di Aristocracy  a la Jean Lafitte che esalta le qualità strumentali di Harry Carney al baritono e del canadese Fred Stone al flicorno. Per non parlare degli splendidi ritratti davvero riusciti di Louis Armstrong, impersonificato come meglio non si potrebbe da Cootie Williams, e di Sidney Bechet. Quest’ultimo doveva essere suonato ovviamente da Johnny Hodges al soprano, visto che ne è stato pure allievo, ma a causa dell’improvviso decesso, splendidamente sostituito da un emozionante Paul Gonsalves. Non molto da meno sono quelli dedicati a Wellman Braud, bassista delle prime edizioni dell’orchestra ellingtoniana, e quello peraltro tutto strumentale dedicato a Mahalia Jackson e all’aspetto della musica religiosa nera a New Orleans. Brano che conclude al meglio davvero un capolavoro senza tempo del jazz e della musica tout court.
(Riccardo Facchi)

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