FREE FALL JAZZ

Ormai prossimo ai 40 anni e quindi alla piena maturità umana ed artistica, Jeremy Pelt è da tempo considerabile uno dei trombettisti di punta nel mondo del jazz, per quanto la scena attuale non sia certo priva di giovani rampanti, afro-americani e non, che possono tranquillamente competere con lui: da Ambrose Akinmusire a Christian Scott, da Sean Jones a Marquis Hill, da Etienne Charles a Jason Palmer, da Avishai Cohen a Adam O’Farrill, da Keyon Harrold a Maurice Brown, tutti nomi di talento, per lo più poco frequentati nel nostro paese perché vengono mediamente trascurati dai cartelloni festivalieri nazionali, occupati usualmente da nomi sin troppo inflazionati quanto musicalmente esausti. Nativo del Sud della California e diplomatosi al Berklee College of Music di Boston, egli è in realtà da tempo in pianta stabile a New York City, luogo imprescindibile per qualsiasi musicista voglia affermarsi professionalmente negli States.

Con questo Tales, Musings & Others Reveries Pelt è già alla sua dodicesima pubblicazione da leader e, tra gli alti e bassi della sua discografia, ci propone stavolta un lavoro davvero interessante e decisamente riuscito. Siamo ovviamente in pieno mainstream jazzistico, per quanto aggiornato, ma la particolarità del disco è nella formazione davvero peculiare, che offre l’inusuale supporto per tale ambito stilistico, di due batteristi, peraltro davvero straordinari, come Victor Lewis e Billy Drummond, oltre alla regolare presenza del basso di Ben Allison e della pianista milanese Simona Premazzi (da anni trasferita a New York e molto stimata nella competitiva scena locale). Lo stesso Pelt nelle note di copertina definisce la formazione un quartetto trombettistico con una batteria aggiunta.

Oltre alle riconosciute influenze di Freddie Hubbard e Lee Morgan, in questo lavoro si odono anche riferimenti trombettistici ed estetici più specifici e pacati, evidenziando le muse ispiratrici di Art Farmer e ovviamente di Miles Davis, specie nei brani suonati alla sordina (Everything You Can Imagine Is Real) e quella pure di un Charles Tolliver a tromba aperta,  specie nella emissione del suono con il tipico vibrato tolliveriano sul finire della nota (Nephthys).

Molto interessanti e originali le scelte in scaletta effettuate da Pelt, con la riproposizione di uno splendido brano di Shorter poco frequentato come Vonetta, particolarmente amato dal trombettista, come riferito nelle note di copertina scritte di suo pugno, e Glass Bead Games di Clifford Jordan.

Davvero ispirata è poi la scelta di una ballad poco nota ma suggestiva, composta dai noti songwriters Jule Styne e Sammy Cahn (quelli di Time After Time, I Fall in Love Too Easily, I Guess I’ll Hang My Tears Out to Dry, Let it Snow, Let it Snow, Let it Snow, tra l’altro): I Only Miss Her When I Think of Her, peraltro ascoltata da Pelt dall’amico e collega Jimmy Greene e qui suonata davvero molto bene.

Non manca poi in Pelt l’impegno sociale esplicato in musica, tipico peraltro della migliore tradizione musicale afro-americana, con un brano energico e di protesta come Ruminations On Eric Garner, che richiama alla memoria gli episodi di mala giustizia americana per i verdetti assolutori per i poliziotti bianchi che uccisero afro-americani, come appunto Garner a New York, nel 2014 e il precedente Rodney King a Los Angeles, nel 2012, sollevando un problema ancora molto sentito nella comunità afro-americana e che riporta clamorosamente alla ribalta antichi problemi razziali in realtà mai sopiti. Che Pelt lo faccia senza utilizzare prevedibili fischi, grugniti, urla e dissonanze varie, forse impressionerà poco certi nostri attempati propugnatori in musica della “lotta contro il sistema”, che magari pontificano di “rivoluzioni” con il deretano regolarmente appoggiato sulla propria poltrona di casa, ma egli dimostra qui di poterlo fare anche con schemi musicali diversi, più ortodossi  e poco stereotipati, ma comunque musicalmente molto efficaci.
(Riccardo Facchi)

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