FREE FALL JAZZ

Tigran Hamasyan è considerato in ambito di pianismo improvvisato il fenomeno del momento, e si sa che oggi il jazz vive molto (purtroppo) di fenomenologie e mode, che talvolta mostrano nel tempo dubbia consistenza musicale. Pianista armeno di ispirazione jazzistica e di fama ormai internazionale (premiato nel 2006 da Herbie Hancock, al Thelonious Monk Institute of Jazz come “miglior piano jazz”), il ventottenne Hamasyan si preparava domenica scorsa ad esibirsi nella chiesa di Santa Maria Maggiore, situata in Piazza Vecchia in Bergamo Alta, nell’ambito di “Contaminazioni contemporanee”, manifestazione inserita nel ricco e vario programma di “Bergamo Scienza” edizione 2015, proponendo il suo ultimo progetto “Luys i Luso”, ossia “luce dalle luci” basato su reinterpretazioni di musiche sacre armene. Realizzato insieme al Coro da Camera di Yerevan, capitale dell’Armenia e recentemente inciso su disco per ECM, il progetto previsto è in realtà saltato, a causa di un serio contrattempo dei componenti del coro alla frontiera francese relativo ai passaporti, che non ha loro permesso di arrivare per tempo in città. Il musicista conseguentemente ha dovuto improvvisare un nuovo concerto in piano solo. Poco male per il sottoscritto che, sentendo per la prima volta il giovane musicista, ha avuto modo di riceverne una prima impressione.

Premetto che il pianista ha riscosso grosso successo tra il pubblico. Per quanto mi riguarda, ho avuto la netta impressione sin dalle prime battute che si trattasse del tipico musicista adatto a fare la felicità di Manfred Eicher, noto produttore ECM, che tra l’altro era atteso nei giorni scorsi per una conferenza sempre in ambito di Bergamo Scienza, ma che ha dovuto rimandarne la data per impegni imprevisti. Si tratta certamente di un ottimo pianista di impostazione classica, in possesso anche di una buona conoscenza jazzistica e pratica improvvisativa, che rende originale la sua proposta utilizzando la tradizione musicale folk del suo paese. Le sue improvvisazioni risentono profondamente anche delle influenze dei luoghi geograficamente confinanti (Turchia, Georgia e Azerbaigian), profumando di Medio Oriente, Asia Minore e tradizione russa. Possiede un’eccellente mano destra e una buona capacità di sfruttare le dinamiche dello strumento, ma ha comunque lasciato alcune perplessità allo scrivente. La musica armena pare caratterizzata da un uso quasi metodico di ostinanti ritmici, di modi, con una armonia che lungamente resta ferma, a mo’ di mantra meditativo, e un po’ tutti i brani improvvisati (e pure accompagnati all’unisono dal suo canto e dal suo fischio) sono risultati impostati e interpretati sotto quella luce, rendendo alla lunga la musica statica e un po’ uguale a se stessa. All’uscita, mi domandavo però seriamente quanti dischi si potrebbero fare con questa sì originale proposta, ma estetica un po’ monocorde. Non vorrei si rischiasse di fare la fine delle incisioni del suonatore di oud tunisino Anouar Brahem: piacevole ed interessante sentito una volta, monotono e ripetitivo  negli ascolti successivi. In altri termini, occorrerebbe domandarsi seriamente quanto queste “speziature etniche”, questo genere di “contaminazioni” (orrendo termine assai abusato oggi in ambito di musiche improvvisate) tanto decantate, abbiano reali margini di durata temporale. Personalmente ho alcune perplessità in merito, al di là del valore intrinseco indubbio dei musicisti.

L’esordio mi ha ricordato non a caso, e forse in meglio, il Jarrett che eseguiva le musiche di Gurdjieff (esperienza poco riuscita dell’eclettico pianista di Allentown, anche se per lui “filosoficamente” significativa). Una certa melanconia e tristezza della musica armena si è sentita profondamente, fortunatamente mitigata da un approccio ritmico molto interessante e originale, che ha permesso al pianista armeno di esaltarsi particolarmente nel secondo brano del programma proposto, decisamente il più brillante della serata.

In un paio di esecuzioni Hamasyan ha evidenziato la sua cultura jazzistica, cercando di miscelare noti standard jazzistici interpretati sotto una luce, per così dire, armena. Se la cosa è abbastanza riuscita con la lettura di I Remember You, non altrettanto si può dire di Someday My Prince Will Come, poiché unire la leggiadria sentimentale e un po’ zuccherosa del brano associato alla filmografia disneyana, con la tristezza e la melanconia della musica folk armena mi è parsa come minimo una forzatura estetica. Quando si vogliono miscelare culture musicali e “moods” così differenti forse occorrerebbe pianificare meglio le scelte dei materiali da integrare in un propria estetica originale. In definitiva, temo che per gridare al miracolo pianistico occorrerà attendere nuovi sviluppi e nuove occasioni.
(Riccardo Facchi)

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