La lettura in questi mesi di diversi scritti in rete sulla materia jazzistica mi ha condotto a riflettere sul modo nel quale viene oggi maggioritariamente inteso il jazz nel nostro paese e a scrivere qualche riga intorno al provocatorio tema indicato nel titolo.
Da appassionato di vecchia data, ossia da circa metà anni ’70, posso dire di avere vissuto sulla pelle l’involuzione (perché di questo si tratta) che la gran parte della divulgazione jazzistica ha subito in Italia da quegli anni. Siamo cioè passati da un racconto abbastanza aneddotico e mitologico di quella musica e dei suoi protagonisti, esercitato da una critica musicale appassionata, ma per lo più dilettantistica, ad uno fatto da una nascente musicologia, certo potenzialmente più preparata, ma anche più pretenziosa, più o meno inconsciamente viziata da congenito settarismo ideologico, seriosità ed elitismo, oltre che fortemente influenzata da criteri di valutazione estetico-musicali tipicamente europei, ritenuti implicitamente superiori ed indiscutibili, che non di rado si rivelano estranei alla cultura musicale alla quale si applicano. L’apparente totale diversità tra i due approcci rivela tuttavia un decisivo fattore comune di fondo, ossia una generica e limitata conoscenza della cultura americana e afro-americana, non solo musicale, che è stata ed è ancora la fonte principale e costituente del jazz, deformandone il quadro. Non si tratta di trascuratezza o voluto scarso studio, ma proprio di un inconscio rifiuto a prendere in considerazione aspetti della cultura e della società americana che sostanzialmente non piacciono o non interessano al cultore europeo, ma che invece sono fondamentali per una idonea comprensione dell’intreccio musicale, di cui il jazz fa pienamente parte, che tali aspetti hanno saputo produrre. In sostanza, si è preso da quella cultura solo ciò che è affine al gusto e alla tradizione musicale europea, sottovalutando, se non scartando, ciò che non lo è.
L’immagine che generalmente abbiamo avuto a disposizione del jazz in questi decenni è infatti distorta, poiché viziata da alcuni fattori pregiudiziali ancora fortemente presenti, il che ha portato e porta a visioni jazzistiche limitate ad una manciata di nomi e di contributi musicali graditi o affini al proprio gusto, scartandone immotivatamente altri, sulla base di considerazioni che poco hanno a che fare con le peculiarità della musica in questione, in un contesto fatto dalla presenza di molteplici “dialetti”, che stimolano la sperimentazione e ricerca di fusione degli stessi, in quanto sono lo specchio della pluralità di contributi etnici e culturali propri del continente americano.
A chi opera con intenti culturali e divulgativi in materia, dovrebbe infatti essere chiara l’assoluta necessità di descrivere il quadro delle influenze che hanno portato alla formazione dell’idioma jazzistico, senza tralasciarne alcuna, scindendo gusti e idee personali in merito, perché quando si scrive di “storia” la prima necessità è quella di descriverla il più fedelmente possibile, non confondendola possibilmente con l’opinione o la critica, semplicemente perché posseggono funzioni diverse.
A mio avviso, in Italia in questi decenni è quasi sempre accaduto l’esatto contrario, con una critica e una musicologia che hanno sempre avuto difficoltà a separare i fatti dalle idee, manifestando implicitamente la pretesa di imporre al lettore di turno il proprio sé sulla materia da descrivere. Di fatto il jazz non è stato lo scopo di descrizione, ma ne è divenuto il mezzo, col recondito fine di mettere in luce se stessi, il proprio pensiero e la propria impostazione. Il che ha reso inevitabilmente la materia assai meno interessante e la lettura degli scritti più noiosa, ma, ciò che più conta, ha contribuito a divulgare un quadro musicale troppo parziale, di cui oggi si notano vistosamente le conseguenze. Non si tratta però di un approccio errato solo a livello individuale, poiché alla cosa ha contribuito fortemente una impostazione ideologica tipica di quegli infuocati anni ’70 che abbiamo vissuto in Italia, con uno scontro politico-ideologico fortissimo ed estremizzato, purtroppo applicato anche alla musica e al jazz.
Tutti sanno che la stragrande maggioranza della critica jazz italiana è composta da persone di impostazione ideologica “di sinistra”, che si è formata proprio in quegli anni e che comunque ha prodotto proseliti nei decenni successivi. Una pessima interpretazione tutta italica della filosofia che sta alla base di quella ideologia fa considerare, semplificando e sintetizzando al massimo, che l’idea sia sempre preponderante sulla realtà storica e, conseguentemente, che nella storia si debbano cogliere i fatti e gli elementi che possano supportarla e confermarla. Questo “modus operandi” si è non consciamente trasposto anche nell’analisi del jazz e della sua evoluzione storica, arrivando a deduzioni anche sullo scenario odierno piuttosto discutibili. Una delle letture tipiche di quegli anni di cui ancora oggi si sente la nefasta influenza è che il movimento del Free Jazz americano e quello seguente delle avanguardie chicagoane, abbiano fatto da spartiacque tra ciò che è considerabile arte e creatività in materia di musica improvvisata rispetto a tutto ciò che era venuto prima, attribuendo una connotazione “rivoluzionaria” e una decontestualizzata interpretazione politica da “sinistra italica”, che in realtà il Jazz non ha mai posseduto. Chi perciò suonava mainstream, bop, hard bop o modern mainstream era sostanzialmente un conservatore, un tradizionalista, un reazionario, chi suonava free era un progressista/avanguardista per definizione e “contro” il sistema americano, lo show business, lo sfruttamento capitalista e quant’altro. Quindi diventerebbe superfluo lo studio e la conoscenza approfondita della imponente tradizione jazzistica antecedente, ridotta a musica demodé, ad una fase superata che non tornerà più, in una visione “progressista” dell’evoluzione musicale che di fatto non ha riscontri in una cultura che invece pesca continuamente nella sua tradizione per poi rinnovarsi. Il problema è che se al tempo la cosa poteva avere un barlume di senso, oggi, nel 2015 e a distanza di cinquant’anni ci si sorprende nuovamente a intendere tra le righe amenità del genere, considerando implicitamente ancora “avanguardia” una fase musicale ormai storicizzata e che è entrata a far parte della classicità, come tutto il resto. Perciò il futuro jazzistico viene descritto improbabilmente dalle proposte di una manciata di attempati settantenni che sostanzialmente si propongono da decenni allo stesso modo, trascurando inopinatamente nuove generazioni di musicisti che da tempo paiono battere strade più ampie e alternative, disegnando un futuro musicale abbastanza differente da quello ipotizzato.
Sgombriamo innanzitutto il campo dai fraintendimenti: la scena jazz americana è da sempre rappresentata da ciò che accade a New York, non a Chicago, della cui scena musicale i musicisti newyorkesi sostanzialmente se ne fregano, e comunque Chicago non è rappresentabile esclusivamente dai musicisti della A.A.C.M. Molti di loro da tempo sono sostanzialmente e inevitabilmente (data l’età) spenti creativamente e comunque si tengono ormai ben distanti dal jazz (diversi musicisti coinvolti sono i primi a dichiararlo), avvicinandosi sempre più ad una concezione musicale più scritta che improvvisata, prossima alla contemporanea europea. Qualcuno considera, forse non del tutto a torto, questa trasformazione verso la composizione scritta un inevitabile segno di una progressiva maturazione del linguaggio jazzistico verso i consolidati modelli accademici europei, ma personalmente mantengo delle perplessità sul tema. Inoltre, è ancora dubbio che l’influenza sul jazz delle avanguardie di Chicago di fine anni ’60 e ‘70 sia così vasta e capillare come da noi si lascia intendere.
Il grosso dei jazzisti americani pare invece aver già fagocitato certe istanze innovative e essere andato oltre, passando ad altro, tanto più che parecchi musicisti di quell’area sono manifestamente “tornati indietro”, per così dire. L’impressione, del tutto personale, è che certa musica più o meno liberamente improvvisata, o, viceversa, “complessamente” strutturata serva più a giustificare tutta una serie di improvvisatori europei che in questi decenni hanno sviluppato un linguaggio derivativo dal jazz, che certo potrà anche essere interessante e di valore (ai posteri l’ardua sentenza), ma che col jazz ha decisamente sempre meno a che fare. Farlo passare per una sua evoluzione e un progresso annichilente del passato è sostanzialmente una opinione come minimo discutibile, ma per me è una sin troppo chiara mistificazione. Tutto ciò che comunque non rientra in una certa linea estetica, diciamo così, molto “europeizzante” sembra poi appartenere o al passato, o al mondo del “commerciale” e dello show business, o dell’”etnico”, come se l’Europa fosse ancora il centro del mondo. Qualcuno, colto da eccesso d’ansia progressista, mi sa che è rimasto indietro di quasi due secoli.
Ricapitolando brevemente e sintetizzando al massimo il senso di certi scritti: il jazz tradizionale è roba da vecchi decrepiti nostalgici, il periodo dello Swing è stato una sorta di enorme pista da ballo, il Be-bop ha avuto sì i primi veri intellettuali idonei a fare del jazz l’agognata musica d’élite, ma ormai è un linguaggio consunto e abusato, l’hard bop e il modern mainstream sono troppo semplici, formulaici e spinti verso uno sterile virtuosismo, gli standards e le canzoni di Broadway sono materiale ormai troppo sfruttato, per non parlare del blues e del gospel, troppo elementari per il sofisticato gusto armonico europeo. Il R&B e il Soul sono stati solo una commercializzazione per il consumo musicale del poco sofisticato popolo nero. Non parliamo della Fusion o della musica in stile CTI, roba orrenda, inquinata dalla musica popolare, prossima allo show-business. Non citiamo poi nemmeno per sbaglio rap e hip hop, anche se un’icona della scena musicale contemporanea come Steve Coleman ne ha fatto largo uso. E’ un dettaglio da non enfatizzare. Non sia mai che a qualcuno venga il dubbio che è stato il Jazz ad aver sempre pescato in bacini più popolari, e non il viceversa, come invece par di intendere. E che dire poi delle influenze del continente Latino-Americano nella musica nordamericana? Le influenze della musica “latin” (brasiliana, caraibica, andina etc.) e tutta la relativa cultura ritmica e poliritmica di cui il jazz è tutt’oggi fortemente intriso, sono considerate, quasi con sufficienza, poco più che un contributo “etnico”. Basterebbe una scorsa ai nomi del grandissimi per rendersi conto che pressoché tutti ci hanno avuto a che fare, o spulciare nella discoteca di qualsiasi jazzofilo per rendersi conto della cosa. Verrebbe da domandarsi, cambiando punto di vista, in che modo dovrebbe essere considerato da un jazzista americano il cosiddetto “jazz nordico”, così tanto sponsorizzato in Europa. Non conosco per il jazz niente di più “etnico” di questo. Insomma e in estrema sintesi, che ci rimane di buono da ascoltare del jazz ?
(Riccardo Facchi)