FREE FALL JAZZ

Proprio qualche giorno fa, in un dialogo virtuale tra me e altri due prodi imbrattapagine di FFJ come Negrodeath e Maurizio, si parlava delle esibizioni dal vivo di Steve Coleman, uno che si è ormai consolidato la fama di musicista capace di alternare serate superlative ad altre in cui sembra limitarsi a svolgere il compitino o poco più. Maurizio raccontava di averlo appena visto a Saalfelden in un set dall’approccio piuttosto scolastico, il che mi metteva addosso la giusta dose di ansia, visto che io Coleman avrei dovuto vederlo a Pomigliano Jazz poco dopo. Quale versione mi sarei trovato davanti?

Per quanto riguarda il “mio” concerto, vorrei innanzitutto fare un plauso alla scelta della location: le basiliche paleocristiane di Cimitile non saranno il massimo della comodità da raggiungere, ma sono una cornice suggestiva che arricchisce l’evento. Quando Steve e i suoi “cinque elementi” salgono sul palco e, quasi in sordina, attaccano a suonare, non ci si rende subito conto della piega che prenderà la serata: andranno avanti per la bellezza di 130 minuti. Tutti di fila, a parte 3 secondi di pausa dopo mezz’ora e le presentazioni di rito quando saremo quasi alla fine.  Un’autentica prova di resistenza che non tutto il pubblico riesce a sostenere fino in fondo: ho visto gente (con biglietto regolarmente pagato, presumo) non solo andare via in anticipo, ma persino appisolarsi. Il massimo è stato dopo circa un’ora e mezza o poco più, quando il gruppo era lanciatissimo in un pezzo ricco di stop and go e durante ognuno di essi parte degli astanti scattava in piedi sperando si trattasse di uno stop e basta: sembrava quell’episodio dei Simpson in cui i fedeli, durante la messa, dopo una serie di “falsi finali” fremono e si preparano alla fuga in attesa dell’amen definitivo del reverendo Lovejoy. Viene da chiedersi se costoro spendano soldi per vedere un musicista che apprezzano o per poter dire a terzi di essere stati a un “evento jazz” e ostentare i loro gusti raffinati.

La riflessione, da voi che leggete, a questo punto è lecita: magari tutti volevano tagliare la corda perché l’esibizione non era un granché. E invece no: la prova è stata maiuscola. Il sestetto è partito con il materiale più cerebrale, tra tempi ardimentosi, intrecci di fiati suggestivi e il basso di Anthony Tidd intento a tessere linee ipnotiche dall’approccio quasi dub, crescendo costantemente di intensità e integrando sulla lunga distanza soluzioni più immediate e coinvolgenti. Oltre a un Coleman persino gigioneggiante per i suoi canoni (giuro che sarebbe potuto andare avanti un’altra ora per quanto sembrava preso bene), sugli scudi ci finiscono Jonathan Finlayson, che si conferma uno dei più interessanti trombettisti di nuova generazione, e l’ipercinetico Sean Rickman alla batteria. Bene anche la giovanissima sassofonista Maria Grand, mentre il buon David Bryant, pur ritagliandosi i suoi spazi al piano elettrico, raramente è andato oltre il ruolo (ben svolto) del semplice comprimario. La maggior parte del materiale (proposto quasi come fosse un’unica lunghissima suite) ruota attorno all’ultimo, notevolissimo ‘Synovial Joints’, dal quale riconosco più temi. Temi che qui vengono regolarmente dilatati, scomposti, ricomposti, arricchiti di riferimenti e citazioni e ben funzionano anche in questa rinnovata veste.

Se non tutto il pubblico supera la prova di resistenza, di sicuro la superano i sei sul palco: lascia di stucco constatare la facilità con cui si trascinano in un set così lungo e intenso senza pesanti cali di tono o scivoloni importanti. E, se nella serata vista dal collega Maurizio, Coleman è stato scolastico per aver svolto il compitino e poco più, in questa sede si rivela scolastico in un altro senso: offrendo un’ottima lezione di modern jazz (se, per pura convenienza, ci passate il termine).
(Nico Toscani)

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