Il nostro paese negli ultimi anni si è distinto in tanti settori dell’informazione per una narrazione tristemente falsante, iterata sino allo sfinimento, composta da annunci propagandistici, o esaltazioni pateticamente provinciali di limitatissime cerchie di personaggi. L’ambiente intorno alla musica, in particolare del jazz, non si è sottratto a questo genere di logica perversa, impedendo in tal modo ai fruitori di avere una rappresentazione della scena musicale internazionale più ampia e realistica. Gli U.S.A., e New York in particolare, sono da sempre il luogo dal quale emergono i più grandi talenti e le maggiori novità musicali in ambito di musica improvvisata, dove i musicisti, contrariamente a quanto accade da noi, sono soggetti ad una sana e serrata competizione, talvolta esasperata, ma utilissima in termini di fertilità artistica e creatività musicale. Tutto questo per sottolineare il fatto che in Italia rimane pressoché negletto ai più un quantitativo industriale di jazzisti di rilievo, persino con recenti nomine per il Grammy, che invece riscuotono grande attenzione internazionale, calcando le scene ormai da decenni. Uno di loro è il trombonista, educatore, compositore, arrangiatore jazz di vaglia, nonché cantante, Pete Mc Guinness. Originario di West Hartford, Connecticut e ora residente a Brooklyn, dopo i suoi primi anni di studi nel programma jazz della Hall High School (West Hartford, CT), passa al New England Conservatory and University di Miami, completandosi al Manhattan School of Music, dove diviene maestro di musica nel 1987. Pete viene rapidamente coinvolto nella scena jazz di New York. I suoi crediti come trombonista jazz sono molti: Maria Schneider, Lionel Hampton, Jimmy Heath, la Woody Herman Orchestra (diretta da Frank Tibieri), tra gli altri. Appare inoltre come sideman in una cinquantina di CD jazz, tra cui il vincitore di un Grammy “Concert In The Garden” di Maria Schneider. In qualità di compositore-arrangiatore, vanta studi con prestigiosi maestri come Bob Brookmeyer e Manny Albam, che gli hanno permesso di continuare a scrivere musica per propri progetti orchestrali, oltre ad ottenere incarichi di scrittura da jazzisti del calibro di Dave Liebman, e Charles McPherson. La sua “The Pete McGuinness Jazz Orchestra” nasce nel 2006 e si esibisce da alcuni anni nei locali e teatri di New York e, con questo “Strength in Numbers”, è alla seconda pubblicazione discografica di successo. Il suo “First Flight”, CD di debutto pubblicato nel 2007, aveva già ottenuto riscontri critici positivi, oltre alla nomination al Grammy Award del 2008 per l’arrangiamento di Smile. Questo disco, che recensiamo con colpevole ritardo, è invece dello scorso 2014 ed ha ricevuto due nominations come Best Instrumental per Beautiful Dreamer e Best Instrumental with Vocals per What Are You Doing The Rest Of Your Life?. Verso i suoi 30 anni, Pete ha infatti aggiunto alle sue aree di creatività anche il canto, ispirandosi molto allo stile di Chet Baker. Qui egli riporta insieme a sedici bravissimi musicisti newyorkesi una ottima registrazione, fatta di standards e interessanti composizioni originali elegantemente arrangiate. I riferimenti sono prossimi nello stile e nel sound alle orchestre di Bob Mintzer, Bob Brookmeyer (The Send-Off), o alla Vanguard Orchestra, tutte ricollegabili alle radici della grande tradizione orchestrale della leggendaria Thad Jones/Mel Lewis Orchestra (Nasty Blues), sino a giungere a Count Basie (The Swagger), e Woody Herman. La scrittura mostra un abile uso dell’armonia e un impasto timbrico eccellente. Si segnala l’intelligente interpretazione della ballata di Stephen Foster Beautiful Dreamer, con interventi solistici di rilievo del sassofonista soprano Dave Pietro e del pianista Mike Holober. Il trombone espressivo di McGuinness si mostra nella graziosa Bittersweet, come in Trixie’s Little Girl. Altri solisti (tutti eccellenti) sono i trombonisti Mark Patterson e Matt Haviland, i tenori Tom Christensen e Jason Rigby, il baritono Dave Reikenberg, il trombonista basso Jeff Nelson, il contralto Marc Phaneuf, i trombettisti Chris Rogers e Bill Mobley, il bassista Andy Eulau e il batterista Scott Neumann. Infine due tracce sono dedicate come accennato anche al canto. Il disco nel suo complesso è sicuramente pensato per gli amanti del sound delle big bands classiche, quindi assolutamente da evitare per quella cerchia di amanti molto “cool” delle pseudo avanguardie di 50 anni fa, che ogni anno si ritrovano di questi tempi a Saalfelden, intenti a celebrare se stessi più che la musica che ascoltano.
(Riccardo Facchi)